“È veramente vero che, al primo sguardo, sappiamo sempre e immediatamente cosa aspettarci dall’altro?” si chiede Maria Grazia Calandrone in questo libro davvero indefinibile: romanzo? romanzo storico? inchiesta? romance andato a male? Un libro sul dis/amore che non indugia mai sul sentimentalismo e, nel momento stesso in cui ci mostra la parabola dell’amore dalla prima scintilla alla distruzione finale, ci parla di coraggio, di lotte e di diritti.
Ogni relazione, sembra ripeterci Calandrone, è senza garanzie, mai scevra dal dolore, imprevedibile: tragicamente misteriosa e quasi misticamente connessa ad un futuro inconoscibile.
Nei confini posti da quella domanda sta la storia d’amore e di violenza (nata da un iniziale amore travolgente) tra Luciana Cristallo e Domenico Bruno. Un caso di cronaca – che ha attraversato gli anni Zero del XXI secolo con conseguenze giudiziarie e legislative tutt’altro che indifferenti alla società italiana del futuro – un altro caso di cronaca, dopo la vicenda dei genitori biologici della stessa Calandrone la cui passione era stata raccontata con identico trasporto in Dove non mi hai portata (Einaudi, 2022): tra Lucia Galante e Giuseppe Di Pietro.
Magnifico e tremendo stava l’amore (Einaudi, pp. 336, euro 20 stampa, euro 9,99 ebook) compone il terzo vertice di una trilogia letteraria personale e pubblica, nella quale la narrazione gradualmente si sposta dalla biografia familiare – l’adozione di Maria Grazia Calandrone da parte di Consolazione e del deputato del PCI Giacomo Calandrone in Splendi come vita (Ponte alle Grazie, 2021) – a quella familiare e pubblica – l’antefatto di Dove non mi hai portata – a quella pubblica tout court di una coppia salita agli onori delle cronache per fatti di sangue. Un movimento tripartito nel quale due sono le cifre comuni e dominanti: il registro poetico – a tratti puramente lirico anche con gli a capo tipico della poesia che stacca letteralmente le vicende senza privarle mai del peso della materialità – e il discorso amoroso (proprio quello sentimentale che, secondo Roland Barthes, era negletto nella tarda modernità) declinato in tutte le sfaccettature delle sue manifestazioni.
La scrittura di Calandrone, lirica e sensuale, con il suo incedere a tratti febbrile lungo la serrata catena aggettivo-sostantivo curata maniacalmente esplode in passi di una oscurità luminescente, dove anche la violenza sembra scollarsi dall’atto stesso per divenire ancora più inquietante:
L’energia espressa dai corpi in lotta è ancora desiderio fusionale. E questa lotta arcaica a Luciana ancora piace, le pare – in qualche modo rapinoso – perdutamente sensata. Lei e Domenico sono due corpi ancora posseduti, fluorescenti, dilatati da un’aura nera nella quale è visibile, ancora, la luce intorno, quella luce profonda che li univa e veniva dal mare. Ma, a ogni schiaffo, il chiarore di Luciana si assottiglia, si ritira nel caldo del ventre, sotto i colpi di lui.
Elevandosi, fa sgocciolare dall’alto le stille della violenza di genere, le botte e la colpevolizzazione della vittima.
Imbarazzo, fallimento, frustrazione e silenzio: è lungo quest’asse emotivo che Calandrone indaga, prova a sciogliere nodi con delicatezza ma anche senza pietà. Nelle relazioni tossiche non c’è nulla di logico, né consequenziale: domina un lento logoramento che prepara chiusura e isolamento piuttosto che apertura e richiesta d’aiuto. Una terribile spirale nella quale all’impotenza e al dolore si aggiunge la vergogna per non riuscire a reagire fino alla distruzione psicofisica.
La scoperta dell’altro/a, il lasciarsi andare a lui/lei possono digradare nel torbido di una palude che paralizza e affonda. Siamo davanti alla raffigurazione stordente di una lenta e inesorabile asfissia: quella reale delle mani attorno al collo e quella metaforica della coppia sempre più chiusa, privata dall’aria del mondo esterno: il “mondo giace, abbandonato, fuori di loro”. Ed è un mondo che si sta letteralmente trasfigurando quello che Calandrone evoca (con precisi riferimenti storici e brevi e puntute analisi sociali) intorno ai due personaggi: dalla nascita della Telemilano berlusconiana (1980) alla definitiva esplosione del varietà televisivo con una nuova grammatica (Fantastico 3, 1982), dal controllo visuale del corpo delle donne nelle tv private con Drive in (1983) e Colpo grosso (1992) alla nascita di My Space (2003). Vale davvero la pena seguirla ancora la scrittura di questo testo, (as)saggiarne letteralmente la sapidità e l’asprezza e quel gusto per il tratteggio rapido ma fulminante che restituisce in poche righe la detonazione fragorosa di un’intera epoca (la nostra, appena prima e subito dopo l’11 settembre 2001):
Il mondo giace, abbandonato, fuori di loro […] in quegli anni accadono cose che modificano definitivamente l’assetto terrestre, ribaltano la configurazione del conosciuto, quella politica e – di conseguenza – quella dei nostri fatti di ogni giorno, delle nostre abitudini piccole, dell’immaginario di tutta una nazione. Anzi, di tutte le nazioni, perché la controriforma del mercato, la trasformazione della politica in economia, l’egemonia invisibile di finanza e multinazionali, riconoscibile solo nei suoi effetti concreti sulla deperibilità delle nostre vite prosciugate, sono planetari. Una Erinni con vesti fiammeggianti, di azzurre lingue di metano gettate sopra le carni butterate dall’inesistenza si aggira per il mondo, criptovolvendo nei più bassi cieli e nelle stratosfere come lo spazio negativo di un fascio di banconote virtuali.
Sotto i colpi di una lussureggiante immaginazione letteraria, la scrittura di Calandrone trasforma il tempo storico – quello che intere generazioni già percepiscono come Storia, ovvero concatenazione di grandi eventi – in pagine di carne pulsante, materia viva (o morente), scenari che sprizzano schegge destinate a divenire costellazioni ed universi.
Calandrone, attraverso la tragica catarsi dell’amore e della violenza, ha scritto pagine essenziali della Storia d’Italia dal Secondo dopoguerra agli anni Dieci del XXI secolo nel quadro globale. Senza mai rinunciare alla prosa poetica di una narrazione originalissima e felicemente contaminata, il libro ci mostra nitidamente le geografie di un Paese dis/articolato nel quale le tensioni storiche, sociali, antropologiche e linguistiche lungo le linee di faglia tra genere, razza e classe determinano vite individuali e collettive. Una geologia della nazione nella forma di una prismatica auto-biografia che ne demitizza gli aspetti di unità per esaltarne la frammentazione, anzi la segmentazione. Si tratta – per riprendere la luminosa postfazione metodologica intitolata Chi scrive che c’entra. Solenoide, nel quale l’autrice stessa rivela di essere parte integrante del gioco auto-biografico – di “mettere ordine nel marasma magnifico del vivere”.
L’intero testo potrebbe essere letto come una riflessione sulla scrittura: una pagina dopo l’altra, la voce narrante, a dispetto del suo dichiararsi come la voce stessa dell’autrice Maria Grazia, è già una figura di finzione del e nel testo: squaderna idee, enuncia anticipazioni narrative che riprende anche dopo centinaia di pagine, rimugina su come andrebbe effettivamente raccontata questa storia, illudendo il lettore e la lettrice di essere messi al corrente delle scelte letterarie. Non certo un espediente inedito ma tuttavia ispessito nei suoi effetti dal fatto di avere fra le mani materia di cronaca nera. E tuttavia non siamo mai davanti ad una lezione, siamo piuttosto dentro un grande laboratorio letterario: l’autrice/alchimista/narratrice è lì a mostrarci le reazioni degli umani dinanzi a sentimenti travolgenti. Nella trasparenza della vetreria della chimica, vediamo scatenarsi le conseguenze del dis/amore.