E dunque si torna all’ascolto di creature scomparse all’udito. Forse anche alla vista, se diamo per certo quanto la visionarietà in epoca di contatti elettrici sia finita piuttosto male. L’udito poi sembra consegnato alle fasce subalterne del suono coatto. L’avventura di Agnese Grieco diventa la caduta di un meteorite, apparso improvvisamente nei cieli degli Dèi, e atterrato nel bel mezzo del Mediterraneo. Certo non per caso. Leggendo (e guardando) l’Atlante si capisce subito come le sirene, nel corso dei millenni, siano state trattate in tutte le salse: fenomeni divini, mostri, inganni, disfunzioni letterarie, abitanti dei circhi in stile Barnum, star delle major hollywoodiane e della celluloide nostrana, perfide assassine, e così via.
L’iconografia di questo volume sorprende a ogni pagina, tanto è carica d’immagini che giungono da tutte le epoche e che sono saggiamente esibite a compendio di un testo onnicomprensivo. Non era facile. Si ammirano dipinti, stampe, codici miniati rari e preziosi di scarsa diffusione nella pubblicistica disponibile. Il lato seduttivo della storia inizia con l’Iguana di Anna Maria Ortese. Per mettere in chiaro fin da subito quanto l’immagine comunemente accettata della sirena metà femmina e metà pesce qui non funzioni. E si capisce come nella confusione mentale, da attribuire all’aggrovigliato argomento, nel corso dei secoli è stato alquanto semplice imbattersi in falsi “storici”.
Per questo occorre andare immediatamente alle origini della storia. Intanto in un quadro di Hans Thoma del 1886 la specie “sirena” viene rappresentata come una sorta di gallinaccio dove dai fianchi in giù le femmine appaiono attrezzate di piume e zampe degne di un emù. Di certo le versioni di tale specie, seguendo la via dei miti, sono mutate almeno quanto è mutata la visione del mondo. L’Atlante ripercorre i millenni con grande attenzione, in una specie di compendio antropologico di grande fascino.
Nell’Odissea, dove si legge il più antico racconto sulle sirene, i brani si intrecciano a quadri di Waterhouse e Delvaux, vi vengono narrati gli avvenimenti che hanno visto Ulisse protagonista ma senza descrizioni precise sulle creature tentatrici. Il poema omerico si sofferma sul suono, ritmico e suadente, forse infantile, o ipnotico delle cicale o delle api. Il termine seiren in Aristotele serve a indicare l’ape solitaria, il suo ronzio. Le cicale un tempo furono uomini presto rapiti dall’ebbrezza e dunque condannati a morte fino a che gli dèi non li trasformarono in insetti capaci di cantare senza approvvigionarsi.
Qui i rimandi etimologici sui vocaboli descritti da Grieco si diramano in più direzioni, e si ha l’impressione di appoggiarsi sulle origini arcaiche del mondo. E anche in questo campo si comprende come i riti di vita e di morte siano prima di tutto, nella storia dell’umanità, una condizione storica, oltre che religiosa. Le sirene, dunque, cambiano continuamente pelle, si ritrovano in epoca moderna nei teatri parigini, nelle sinfonie wagneriane, sui palcoscenici di Broadway, negli anfratti napoletani e veneziani, nei racconti di Kafka (viste dallo scrittore come esseri provvisti di artigli, lamentosi e consci della loro sterilità), nei poemi giovanili di Eliot, all’Ormond bar (sfacciate nelle camicette di satin nero) nell’undicesimo episodio dell’Ulysses joyciano. Qui il dramma naturale rasenta i colpi di testa della parodia, perfino gli zoom fotografici del comics.
E nei capitoli del libro dove si descrivono la fisiologia dei corpi, la trasformazione nel tempo delle sembianze, gli avvistamenti moderni, i travisamenti più o meno fantasiosi e imbevuti di frottole a uso dei gonzi, ci si accorge in che modo gli antichi miti trasformati in frivolezza assumano un aspetto sinistro e carico della congenita malinconia dello “show business”. Si confronti il malumore della Sirena di Munch (1896) con l’avvenenza in technicolor di Daryl Hannah in Splash di Ron Howard. L’arte di fine Ottocento sbandiera afflizioni fascinose e rapinose bellezze carnali, l’arte del primo Novecento sfrutta le correnti del disumano dentro panorami surreali.
Il cinema del Novecento ama le sirene, perfino Truffaut le trasforma in bipedi nel clima coloniale del Mississippi quando giunge dal mare Catherine Deneuve, dark lady dallo spiazzante comportamento maschile. Ondina, la fata o la strega di chiara origine marina, è però capace di camminare avendo gambe di donna: è dunque maggiormente inquietante, assume finanche l’aspetto di gran moda e terribilmente seduttivo di Audrey Hepburn nell’adattamento del dramma di Giraudoux.
In letteratura Ingeborg Bachmann, da par suo, segue la trasformazione di Ondine in qualcosa di terrestre per poi rifiutarne costrutto e ideologia. E qui siamo nel disconoscimento mai pacificato fra arte e vita del pieno Novecento. Quasi si prova nostalgia per la Ligeia Sirena (1873) di Dante Gabriel Rossetti, corpo severo di donna greca dalle forme che non darebbero alcuno scampo a chi le si avvicinasse.
Addentrandoci nel labirinto del libro si capisce quanto Grieco abbia costruito una vastissima mappa in cui i destini si incrociano e tutte le stagioni dell’umanità confluiscono in un viaggio sensoriale dai rimandi infiniti. I sentimenti si scatenano, fra geografia terrestre e mentale, dove infine proprio l’uomo sembra il risultato ultimo dei propri miti.
Cartografia di ondine
Agnese Grieco, Atlante delle sirene, il Saggiatore, pp. 352, euro 28,00 stampa