All’inizio del 2021 esce il libro di uno psichiatra ormai in pensione che romanza l’arte di legare le persone. Questo psichiatra ha esercitato la professione nella città di Genova, città molto poetica, lui si chiama Paolo Milone. Il libro è abbastanza ben scritto e siccome non è un saggio ma una sorta di romanzo ecco che ci frega. Abboccano per primi alcuni intellettuali insospettabili, che non avrei mai creduto capaci di applaudire a questa malafede psichiatrica camuffata da gesto narrativo. Intellettuali convinti che siccome la letteratura è letteratura, in quanto tale deve poter dire tutto, Contro l’impegno, per dirla con Walter Siti.
La letteratura d’altra parte è magica, e ha il potere di muovere gli eventi e far rinascere, come zombie, certe pratiche che credevamo di aver seppellito. Come ogni magia la letteratura può essere bianca oppure nera, quando la letteratura riesce a persuadere che legare le persone è un’arte, io dico che è una sorta di magia nera.
Come i topi del pifferaio di Hamelin, psichiatri afoni, psichiatri balbettanti, psichiatri che non hanno scritto, non dico un romanzo alla Mario Tobino (quanto gli piaceva a Mario Tobino il suo manicomio di Magliano, le libere donne, scriveva, e quanto odiò Franco Basaglia e i novatori che glielo tolsero quel suo manicomio) o alla Paolo Milone (quanto gli piace a Milone il manicomio di Quarto, quanto si è gustato la sua rivincita sui novatori con questo libro con cui ha persino vendicato Tobino di quel furto), ma nemmeno mezza pubblicazione scientifica su una qualche rivista a pagamento, ebbene psichiatri che per anni si sono vergognati di questa pratica – legare le persone, si faceva nei reparti ma senza dirlo, senza neppure scriverlo nelle cartelle cliniche talvolta – adesso che questo romanzo li ha rivalutati, dipingendoli non più come fascisti ma come artisti, ecco che anche la carriera diventa più facile. Devono ringraziare la superficialità di alcuni intellettuali, che inconsapevolmente hanno sdoganato l’arte in cui certi psichiatri si sentono maestri.
E così fa carriera lo psichiatra che nel 2006 lavorava nel SPDC di Cagliari dove fu ricoverato in TSO un venditore ambulante, Giuseppe Casu, che ebbe il TSO perché, sprovvisto di licenza elementare, senza la quale non poteva fare il venditore ambulante, lanciò una bottiglietta di acqua minerale al poliziotto municipale che gli smontava la bancarella e lo ricoverarono coattamente. Dopo una settimana di legamento al letto Giuseppe Casu morì, per un’embolia. L’immobilità forzata spesso causa tromboembolie, le persone legate quando muoiono annegano nel proprio stesso respiro. Poco dopo il corpo di Giuseppe Casu sparì dall’obitorio. Davvero. Non si trovò più. Che tipo di SPDC era questo reparto psichiatrico di Cagliari, nel 2006? Lo descrive molto bene Giovanna Del Giudice nel suo libro E tu slegalo subito. Un reparto chiuso, con una guardia giurata. Nel primo semestre dell’anno precedente i tredici medici che vi lavoravano avevano fatto ben 177 contenzioni – sì, avete letto bene, per 177 volte in sei mesi una persona era stata legata al letto – e inoltre praticavano l’elettrochoc, uno dei pochi SPDC, dei 323 attivi in Italia, dove ancora le persone venivano elettroscioccate. Nel 2012 a questo SPDC se ne aggiunge un altro, nella città di Cagliari, dove va a lavorare lo psichiatra che oggi ha vinto il posto di direttore di un CSM a Trieste. Entrambi i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura di Cagliari, dopo una felice liberazione nel periodo 2006-2012, quando la direzione del Dipartimento di Salute Mentale cagliaritano fu affidata a Giovanna Del Giudice (periodo in cui le contenzioni furono eliminate e le porte aperte), ritornarono velocemente allo status quo ante, tant’è che il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, nel suo rapporto del 2019, scrive che la qualità degli habitat, la pratica della contenzione, la rinnovata presenza di guardie giurate, le porte chiuse, caratterizzano entrambi i SPDC di Cagliari, in uno dei quali, tra l’altro, nel 2018 è morto un altro uomo legato.
La faccio breve: alcuni mesi fa il dottor Pierfranco Trincas, forte di questa sua lunga esperienza nei SPDC cagliaritani, ha pensato di concorrere a nuovo direttore di un Centro di Salute Mentale aperto nelle 24 ore di Trieste. Lo ridico: il direttore di un SPDC chiuso, con porte chiuse e fasce, si candida a dirigere uno dei CSM aperti 24 ore su 24, tra i più avanzati al mondo. Ciò accade perché lo psichiatra sa di avere delle chance. Forse perché l’arte di legare è stata riabilitata perfino dalla letteratura? Infatti, lo psichiatra restraint, pur senza titoli, vince il concorso.Impossibile, direte. La valutazione delle pubblicazioni e del curriculum dei candidati assegnava il primo posto a Mario Colucci, psichiatra di formazione basagliana e lacaniana, tra le altre cose redattore della rivista «aut aut», autore di decine di pubblicazioni importanti, tra le quali, coautore con Pierangelo Di Vittorio, la migliore monografia su Franco Basaglia. La prova orale, però, premia Pierfranco Trincas (era terzultimo quanto a titoli, con le sue due pubblicazioni).Per capire le ragioni di un sorpasso impossibile si può andare a vedere da chi era presieduto questo concorso che si svolge in una regione e una città amministrate dalla Lega. Lo presiedeva un’altra psichiatra della scuola dei legatori, potremmo dire. Emi Bondi, nel 2019, dirigeva il SPDC dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, reparto dove la diciannovenne Elena Casetto muore bruciata il 13 agosto di quell’anno, mentre è legata al letto. Anche in questo caso, non sto insinuando che la colpa della morte di Elena Casetto sia di questa psichiatra, ci mancherebbe altro, non posso dirlo anche perché non è stata condannata né lei né gli altri operatori sanitari del reparto (sono stati rinviati a giudizio solo due operai del servizio antincendi). Quel che voglio sottolineare, però, è il paradosso di una psichiatra, responsabile di un SPDC restraint (con porte chiuse e uso di fasce), che si trova a valutare chi debba essere il miglior candidato a direttore di un CSM aperto nelle 24 ore della città di Trieste, dove c’è un Dipartimento di Salute Mentale che ha un solo SPDC, sempre aperto e dove non si legano le persone.Insomma, si sarà ormai capito il mio punto di vista: l’arte di legare le persone è l’arte in cui devi eccellere, in questo momento storico, se vuoi fare carriera nella psichiatria italiana.
C’è un altro psichiatra che non ha mai preso le distanze dall’esercizio di quest’arte, nonostante nel 2018 la Cassazione abbia confermato la sua condanna per sequestro di persona e falso ideologico (pena sospesa perché inferiore ai due anni, mentre il reato di morte in conseguenza di altro delitto è andato in prescrizione) per la morte, nel 2009, di Franco Mastrogiovanni. Il maestro – lo chiamavano i suoi alunni – più alto del mondo. Dopo 87 ore di agonia – filmati inesorabilmente dalle telecamere a circuito chiuso del SPDC di Vallo della Lucania, poi diventati film grazie al magistrale lavoro di montaggio di Costanza Quatriglio – Mastrogiovanni, come un Cristo in croce, muore legato e l’intera équipe di medici e infermieri viene condannata. Uno di loro, il dottor Raffaele Basso, da qualche mese è il responsabile del SPDC di Frattamaggiore.
«Non si resta ancorati a una visione antica» ha puntualizzato Massimo Di Giannantonio, presidente della Società Italiana di Psichiatria, intervenendo nel dibattito del concorso triestino vinto da Trincas. Come dire che una salute mentale di comunità, senza fasce e senza reparti chiusi e con centri aperti nelle 24 ore è l’antico, mentre il ritorno dei manicomi camuffati in forma di circa 300 servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi, farmaco e fasce è il nuovo che avanza.
Io intanto divento sempre più vecchio, quando ho iniziato a scrivere i primi pezzi di questo libro non avevo quarant’anni e ora ho superato i cinquanta, eppure continuo a non sopportare quest’arte di legare e chi di quest’arte s’è innamorato e ne ha fatto narrazione. È più forte di me.
Sin dalla prima volta che ho messo piede in un reparto psichiatrico, l’ho sempre vista come una… cosa da pazzi, davvero, dell’altro mondo, che non sta né in cielo né in terra, una cosa che noialtri vocati a curare le persone con l’io fragile non ci possiamo permettere. Il lazo, il cappio, la fascia, la fune, la corda, noialtri che siamo gli psichiatri non dobbiamo più averli tra i nostri strumenti. E se pure fossero le nostre uniche armi per difenderci, noialtri che siamo psichiatri dobbiamo operare disarmati.
Quando arrivai in uno dei tanti SPDC dove ho lavorato, era il 2006, una delle mie prime notti di guardia, il collega che mi lasciò il reparto affidandomi i dodici pazienti ricoverati mi disse sommariamente come stava ognuno, del più turbolento disse, assertivo: Questo se continua a fare casino va legato. Nemmeno i cani lego, risposi – esagerando – al giovane collega che poi avrebbe fatto una splendida carriera come sindacalista.
Basaglia, quando il 16 novembre del 1961 arrivò nel manicomio di Gorizia come nuovo direttore, si confrontò col caposala (o meglio, l’ispettore, allora si chiamava ispettore) che voleva fargli firmare il registro delle contenzioni già fatte, e in veneziano disse E mì non firmo. Io non ero direttore, non ero veneziano e soprattutto, in quella primavera del 2006, erano già passati quarantacinque anni dal 1961 e trent’anni dall’abolizione dei manicomi, eppure quella pratica di legare le persone era più che mai in voga e anche io, come Basaglia, mi sentivo un cane, un cane in chiesa, un cane nella chiesa della psichiatria, un cane nella chiesa di questa miserabile psichiatria che legava – nei manicomi – e lega – nei SPDC – le persone, qualcuno credendo, o volendo far credere, che sia perfino un’arte. Se è un’arte, io dico che è la più miserabile delle arti.
L’ultimo episodio di non contenzione. Ve lo racconto. D’altra parte, ognuno racconta ciò che sa fare. Io, se c’è una mezza cosa che ho imparato, è cercare disperatamente di non legare le persone. Non sempre ci riesco. E le volte – non molte per fortuna – in cui non ci sono riuscito, per le tante condizioni avverse, mi sono sentito veramente una merda. Una delle volte che non ci sono riuscito l’ho raccontata proprio all’inizio de La fabbrica della cura mentale. Nel capitolo Prendila tienila legala! Allora mi dissi: mai più. Inutile dire che non sono riuscito a mantenere la promessa.
Alcuni mesi fa. Primo Maggio del 2021. Ancora non è iniziato il concertone, che stavolta si fa all’Auditorium, e ancora l’imprenditore Fedez non ha sostituito Che Guevara nel cuore del popolo della sinistra. Io sono in turno per tutto il giorno. C’è l’ex detenuto ricoverato perché fuori non ha più una casa. C’è l’euforico che è in fase mistica. Entra una nuova ragazza con idee esoteriche. I due si battono per dimostrare a se stessi e alla ragazza di essere il maschio alfa tra i ricoverati. L’euforico con un pugno stordisce l’ex detenuto. Ma l’euforico è smilzo e l’ex detenuto è un torello ex pugile. È chiaro che il duello proseguirà. Mi chiamano gli infermieri. Sono quattro. Due uomini, piazzati e calmi. Due donne, piccole e gentili. L’équipe è perfetta. Loro mi piacciono. Tutti e quattro. Non sono di quelli che perdono la pazienza, che vogliono guardare la televisione o sgranocchiare patatine o guardarsi il telefonino. E che al primo gesto di violenza ti chiedono di tirare fuori le fasce. Sanno che lavorare in un reparto psichiatrico è diverso che lavorare in altri reparti. Una specie di missione, mettiamola così. Parlo con l’euforico: Ok, hai fatto bene a mantenere la calma. Parlo con l’altro: Mi ha tirato un pugno ma non mi ha abbattuto, ora vedrà che gli faccio. Ma no, dai, tu sei un adulto in confronto a lui, un uomo maturo, dimostragli quanto sei saggio. Si puntano, si incontrano, gli infermieri ben piazzati li prendono, con forza e gentilezza allo stesso tempo, e li separano, io faccio l’arbitro, è un incontro di boxe o di lotta libera o di arte marziale da strada o da galera o da reparto psichiatrico, un duello che non si deve fare. Che dobbiamo impedire. Passa il tempo. Inizia una danza di noi, quattro infermieri, due ricoverati, un medico, altri pazienti. All’inizio il marcamento è a uomo poi diventa a zona, infine si sono sbolliti, viene l’ex detenuto da me, ride, dice: Ha visto che capacità di controllo che ho avuto? Ho preso un pugno ma non mi sono scomposto. Dico: Bravo, sei stato proprio bravo. Arrivano pure i carabinieri perché l’euforico, minacciato di morte dall’altro, lo vuole denunciare, è un suo diritto, di solito se un ricoverato chiama i carabinieri quelli non lo prendono sul serio perché è ricoverato in psichiatria quindi inattendibile, ma li faccio passare, dico: Venite perché lui è attendibile e ha tutto il diritto di dirvi ciò che crede. E anche l’altro deve sapere che se minaccia di morte qualcuno, ne risponde. Insomma, la faccio breve: nel 90% dei reparti psichiatrici d’Italia questi due sarebbero stati legati. Per molti giorni. Così funziona. Non legare è molto più faticoso. Ma vuoi mettere, tornare a casa stanco e non sentirsi una merda.
«Io sono della vecchia scuola, non sopporto i tentativi di convincimento infiniti, li trovo più folli e violenti di una rapida virile e chiara contenzione». Perché – aggiunge – «bastano due minuti per capire se un paziente è convincibile o no». Così scrive Milone nel libro che non volevo leggere perché già il titolo mi suonava orribile.
Secondo lo psichiatra legatore, formato alla scuola del manicomio, quel che ho fatto io, per l’intero pomeriggio del Primo Maggio del 2021, è qualcosa di folle – beh, forse ha ragione, un po’ folle lo sono – ma soprattutto ingaggiarmi in una negoziazione e una de-escalation continua è stato violento. Poi è stato poco virile, si capisce. Giusto una femminuccia perde tempo con questi due, quando avrebbe le fasce per metterli a corpo morto.
E i TSO? «Fare un TSO vuol dire irrompere nella casa di qualcuno e trascinarlo di forza in ospedale. Questa è un’operazione militare. Come tutte le operazioni di tipo militare, richiede che nella squadra che parte vi sia conoscenza reciproca, fiducia reciproca e accordo sulla gerarchia».
Ecco la lezione di psichiatria militare, di psicopolizia, che prelude alla successiva contenzione di quando poi si arriva in SPDC. E sì. Perché certe contenzioni cominciano fuori, nel cosiddetto territorio, molto dipende da come il ricovero viene iniziato, condotto, gestito. Lo psichiatra dice all’infermiere suo sottoposto: «Procediamo», ma l’infermiere è Bartleby e risponde: «No, aspettiamo», ma lo psichiatra non è Basaglia e fa: «Aspettiamo cosa? […] Io sono medico e tu infermiere. […] La responsabilità è mia, quando dico procediamo, procediamo».
Applausi. I lettori che hanno letto questo trattatello di psichiatria manicomiale camuffato da romanzetto autobiografico si sdilinquiscono. Come dicevo: si sono commossi di tanta bellezza perfino intellettuali insospettabili.
L’infermiere sottoposto allo psichiatra a quanto pare era un fenomenologo e voleva fare epoché. Pur senza aver letto Husserl (ma non è detto), voleva fermare l’azione. Iniziare la negoziazione. Negoziare è l’arte di convincere, senza vincere. Farsi un’ora, due, tre di negoziazione per convincere a ricoverarsi. Si può fare. Ma bisogna aver pazienza. Quel paziente, rapidamente obbligato, sarà certamente giunto legato, in reparto.
Sapessi quante volte, o lettore, ho evitato legamenti solo perché ho fatto come quell’infermiere, ho aspettato. Talvolta ho aspettato anche tutta la notte. Prenderli per sfinimento. Il fatto è che voi non li conoscete, quelli che cantano l’arte di legare le persone sono i peggiori, con quello sguardo umano di chi dice ti lego per il tuo bene, sono colti il giusto e gli piace pure scrivere, e però sanno scrivere meglio ciò che hanno fatto peggio, non lo diresti mai, ma sono dei sadici che sanno farsi amare. Nel legare le persone e nel farne un’arte c’è una considerevole quota di sadismo che si bilancia col masochismo di chi si fa legare. È un gioco perverso. A cui partecipi pure tu, o lettore.
In tutta la mia carriera, ho lavorato sempre nei reparti restraint, quelli dove si lega, in tutto ne ho legati in numero che si conta sulle dita di due mani. Troppi, lo so. Purtroppo, non posso dire, come Peppe Dell’Acqua, per esempio, o Franco Rotelli o Giovanna Del Giudice o Roberto Mezzina o Mario Colucci (la razza dei triestini che ho sempre invidiato) di non sapere che cosa sia legare una persona. Ho legato ma avrei potuto non legare. Se fossi stato in un reparto no restraint, con altri infermieri, con altri colleghi… anche quei pochi che ho legato sono certo che sarei riuscito a non legarli. Però, se sono riuscito a legare così poco, in reparti dove si legava molto, è perché ho sempre fatto de-escalation. Significa: non provocare i pazienti, non rilanciare alle provocazioni o alle aggressioni. Non mi sono mai permesso, per esempio, di andare in pronto soccorso e a una ragazza che urla e spacca tutto – come scrive lo spaccone genovese – dire: «Calmati stella». Perché se dico stella a una di quelle persone definite borderline, do l’innesco perché mi salti addosso o mi tiri un pugno di modo che io abbia la giustificazione per legarla. Infatti, prosegue: «Poi, via con la sarabanda».
Ricordo, anni fa, un mio collega che legava i pazienti con cui io, poco prima, ero uscito amabilmente a prendere il cappuccino al bar. A uno gli disse: «Si calmi, a un vecchietto come lei, le parte un embolo». E quello lo atterrò con un pugno. E lui lo fece legare. Così funziona. Ci sono alcuni che fanno cento legamenti in un anno, e altri che ne fanno quattro in tutta la carriera. I primi, se sanno scrivere abbastanza bene, riusciranno perfino a scrivere L’arte di legare le persone. E giù applausi.
Sembra che il libro tardivo sia servito, allo psichiatra che lega, per giustificare quel tipo di carriera. E di esistenza. E di crimini di pace. Crimini trasformati letterariamente in atti terapeutici: «Noi veniamo al mondo non quando usciamo dal corpo della madre, ma quando la madre ci abbraccia e ci riconosce e, senza parole, ci contiene ancora in sé. […] La sacralità di questo abbraccio primigenio si riverbera e balugina in alcune contenzioni che facciamo».
Per giustificare il suo legare, lo psichiatra che lega redige il referto delle ferite di guerra: «Ferite di guerra in Sala 77. Quattro fratture costali più il dito di una mano e quello di un piede. Graffi, escoriazioni ed ematomi. Ingiurie, assalti, minacce».
Nella mia carriera mai nemmeno un graffio. Ho uno scudo santo che mi protegge, forse? Bevo acqua benedetta tutte le mattine prima di entrare in reparto? Ma no. I ricoverati si vendicano. Si segnano tutto. L’hai legato una volta? Al ricovero successivo cercano quel medico per vendicarsi, tanto lo sanno che da quel medico saranno ancora una volta legati e sanno ormai che dovranno farsi l’ennesima contenzione. Certi psichiatri formano, nei loro reparti, un’antropologia particolare di pazienti. Pazienti che vengono addestrati alla lotta, all’aggressione, alla tauromachia, alla contenzione, a stare qualche giorno legato. Pensano ormai che questo sia il ricovero. Certi psichiatri li hanno abituati così. E anche i tranquilli, a vedere certe scene, vivono il loro ricovero come un incubo. I tranquilli sono perfino rassicurati dal sapere che l’agitato è stato legato. Pure loro interiorizzano l’atto della contenzione come cosa inevitabile e giusta. I reparti restraint sono meno sicuri, sì, sono più pericolosi contrariamente a quel che si pensa, perché c’è la violenza sempre nell’aria, pronta a esplodere. Gli psichiatri che legano si fanno più male di quelli che non legano. Perché sono più odiati e aggrediti dai ricoverati. Se arriva un eccitato disforico che io ho trattato con gentilezza nei precedenti ricoveri, mi rispetta, al collega sarcastico che, come lo spaccone genovese gli dice stella, gli va diretto a dargli una testata in fronte.
Anche se ho scritto Il manicomio chimico in cui contesto l’uso a pioggia e per tutta la vita di psicofarmaci, nelle situazioni acute in cui è necessario tranquillizzare non lesino i farmaci, capiamoci. Scrive lo psichiatra di Genova: «Solo un anestetico endovena ha effetto immediato, ma bisogna chiamare l’anestesista. Mi chiedo: è meglio essere legati al letto o essere mandati in coma farmacologico?».
Alcune notti fa, alle quattro, una donna voleva andare via dal SPDC. Ma era in TSO. Era tesa come una corda. Un’ora di negoziazione. Aspettiamo domani, dai. Facciamo una flebo. Prendiamo una vena. Io e quattro infermiere. Donne. Entra il Tavor. Poi il Depakin. Non fa effetto. Anche un po’ di Midazolam. Sì, ok, ho fatto l’anestesista. Lo so fare. Per non legare ho imparato a usare bene i farmaci. Non ho bisogno di chiamare l’anestesista. Mettiamo il saturimetro: 94, perfetto. Non è meglio tranquillizzare una persona coi farmaci che lasciarla gridare tutta la notte legata?
Ancora lo spaccone: «Oggi ho rinunciato a contenere un paziente. Non ho graffi, non sono sudato e torno a casa in orario. Ma non sono contento». «Se mi chiedete un’immagine simbolica della Psichiatria d’urgenza è proprio il contenere».
Ecco il problema, aveva ragione Fausto Rossano, uno che, negli anni Ottanta, aveva impostato con pratica basagliana i servizi di salute mentale di Piedimonte Matese (dove ho lavorato dal 2003 al 2006): «L’urgenza in psichiatria non esiste», diceva. Se hai l’urgenza in testa, e vuoi fare come i chirurghi d’urgenza, e vuoi decidere in due minuti se devi o non devi legare, ecco che leghi. Se ti togli da dentro il cranio l’urgenza, e te la prendi comoda, pure il paziente, anche il più agitato, non voglio dire che si calmi, ma si mette un po’ più comodo.
E lo so, ho dedicato troppo spazio, in questa mia introduzione, al collega che ho eletto ad esempio letterario del tipo di psichiatra che io non ho mai voluto essere, lo spaccone di Genova, anche quelli di elèuthera me l’han fatto notare: Non gli stai dando un po’ troppa importanza a questo psichiatra? È opportuno impiegare tutto questo spazio nell’introduzione di questo tuo libro, un libro che resta, per uno psichiatra di cui tra qualche anno magari si sarà persa la memoria? Hanno ragione. Il fatto è che ritengo questo mio libro, che ora torna in libreria, un po’ la risposta alle spacconate dello psichiatra artista delle fasce. Anche se, a pensarci, è più probabile che sia stato il suo libro la risposta al mio. Lo avrà letto di certo, come lo lessero moltissimi psichiatri – come fa uno psichiatra che ama legare a non avere la curiosità di leggere un libro contro di lui? Non può, un libro dove perfino asserivo che chi non lega è felice e chi lega è infelice ognuno a modo suo – l’avrà letto e dopo si sarà messo di tigna per riabilitarsi, riuscendo a pubblicarlo, tu vedi i casi della vita, con lo stesso editore che negli anni Settanta pubblicava Franco Basaglia: ma non è un segno dei tempi tutto ciò?
Quanto a me, non mi aspettavo che questo libretto, uscito di soppiatto nel 2013 per la piratesca elèuthera, innescasse, negli anni successivi, la pubblicazione di altri miei libri di psichiatria critica, che mi avrebbero portato a fare centinaia di presentazioni, seminari, convegni, reading, in librerie, università, centri sociali, manifestazioni letterarie, saloni del libro, e dandomi l’opportunità di conoscere centinaia di pazienti impazienti ed esigenti, altrettanti giovani operatori di salute mentale, solo alcuni tra i mille giovani Basaglia che ci sono in Italia, per fortuna.
Grazie a La fabbrica della cura mentale nel 2014 fui invitato in audizione presso il Comitato Nazionale di Bioetica, in qualità di «esperto di contenzione» (già), dove tenni un seminario dal titolo Moderne tecniche di contenzione e problemi bioetici. Anche da questo mio intervento il CNB nel 2015 redasse un documento dal titolo La contenzione: problemi bioetici, in cui auspicava il superamento della contenzione meccanica nei luoghi di cura. Da questo documento il Forum di Salute Mentale, di cui facevo parte, promosse una campagna per abolire la contenzione meccanica, che iniziò con una conferenza al Senato nel gennaio del 2016 e che dura tuttora. Nel giugno di quest’anno perfino il ministro della Salute ha annunciato di voler superare, entro tre anni, l’uso della contenzione meccanica nei luoghi di cura. La cosa non accadrà, ovviamente, ma almeno serve a sapere da che parte sta il ministro della Salute.
Ecco, ho finito questa nuova introduzione. Mi fa piacere averla scritta. Mi fa piacere che questo libro, a otto anni dalla prima uscita, torni in libreria in una nuova edizione. Così ho avuto modo di fare questo piccolo raccordo di quello che è successo in questi anni. E ho avuto modo di rileggere alcuni passi del libro che, per fortuna, avevo completamente dimenticato. Bisogna sempre dimenticare i propri libri, scrisse Roberto Bolaño, oppure, tutt’al più, ricordarli come «un sogno o un incubo, per poter affrontare nuovi libri, nuovi giorni, senza la zavorra di tutto quello che, con ogni probabilità, avremmo potuto fare meglio e non abbiamo fatto».