Carol Ann Duffy / “Dal tuo cuore sul mio”

Carol Ann Duffy, Poesie d’amore, tr. di Floriana Marinzuli, Bernardino Nera, Crocetti Editore, pp. 112, euro 14,00 stampa

La poesia d’amore è uno dei generi “più difficili e eccitanti da comporre” ha detto Carol Ann Duffy in un’intervista al “Guardian” nel 2009. Lo è proprio perché si tratta di “dire qualcosa che è stato detto in precedenza”. Queste parole introducono il ritorno in libreria da poche settimane di una nuova edizione dell’antologia che l’editore Crocetti aveva già pubblicato nel 2012 col titolo Lo splendore del tempio e che ora rilancia, con la cura (come in origine) di Floriana Marinzuli e Bernardino Nera. Il nuovo titolo è, appunto, Poesie d’amore.

L’amore è un terreno sempre uguale in cui però le variazioni segnano le svolte epocali in un modello piuttosto statico. Variazioni dentro quel codice d’amore che dal tempo dei Trovatori provenzali era sempre stato anche un “codice di comportamento sociale, erotico, etico ed estetico” (così ha scritto la poetessa Laura Pugno introducendo una sua antologia di trovatori (Codice d’amore, Ponte alle grazie). Un codice che diviene da subito un “forma mentis” del modo di intendere non solo l’amore ma soprattutto l’istituzione sociale che ne deriva, ruotando intorno al matrimonio e alla coppia eterosessuale che dal medioevo è ancora molto presente in tutte le arti, nella musica, nel pop, per non dire in Tv, e dilagante nei social, immersi nel più retrivo romanticismo. Sebbene una linea anche antica delle voci femminili ci sia stata, è certo dall’epoca moderna del ’900 che le cose cambiano con la presa di parola delle poetesse, delle scrittrici, che hanno aperto la riconsiderazione dell’amore alla luce del femminismo e delle rivoluzioni dell’identità sessuale, ancora di più oggi da diverse soggettività di genere nelle sue diverse articolazioni.

Dunque Duffy, scozzese, considerata una delle più importanti voci della letteratura inglese, eredita oggi quel cambio novecentesco di paradigma, consapevole – scrive in una sua poesia – che «quando amiamo, quando ci convinciamo che è così» in realtà «siamo alla ricerca / della prima luce», introducendo anche un’eco psicoanalitica. Duffy, scrivono i curatori, cambia “la relazione sbilanciata di potere interno alla coppia” nelle sue poesie, che sono spesso anche dedicate ad amori con altre donne. Maggior valore ha dunque anche il riconoscimento ufficiale del valore che ebbe quando fu nominata, prima donna nella storia del Regno Unito a diventare Poet Laureate quando fu istituita questa carica nel 1668. Duffy certo non si sottrae a ciò che da sempre fa parte di quel codice (e dell’amore stesso), ovvero le emozioni, la passione, la brama e il possesso, il dolore, la separazione. Lo fa però partendo proprio dal suo nome, dalla sua soggettività femminile, inequivocabilmente esplicitata se l’Io-che-scrive nel testo afferma «mi spogliava, i suoi seni uno specchio». Se Duffy è “a poet” nel neutro dell’inglese, è però il dato affidato al nome-poeta, Carol Ann, a ribaltare lo sbilanciamento del codice amoroso che si basa da sempre su un teatro patriarcale in cui è il maschio ad avere unica voce. Duffy costruisce un universo di Love Poem in cui dominano due elementi: l’ironia verso l’amore stesso, da un lato, ma anche la passione vissuta in cui però il ribaltamento è innanzitutto dato dalla passione tra due donne, che stabilisce una parità tra amati impossibile nel rapporto maschio-femmina.

La raccolta si apre con una poesia in cui due donne fanno colazione, la loro vita «girava fremente lontana da fragorose risate degli uomini» e in cui subito si stabilisce una relazione di uguali: «Ecco la tua tazza, ha sussurrato, e questa è la mia» in cui sottolinea il rapporto paritario. Non manca l’amore-Passione, ad esempio in una delle poesie più famose, Scaldo le sue perle, in cui lo sbilanciamento Serva-Padrona con la prima che adora e obbedisce alla seconda, replica il più tipico rapporto romantico e insieme tossico della tradizione, ma per Duffy è come se l’amore si dovesse ogni volta riscoprire, come una lingua da imparare ogni volta. È un amore che tuttavia sta più nel sesso, nell’eros, dove l’amante è come “un animale che impara le vocali” e così i suoni del piacere fisico che l’altro provoca fanno “Ah Ee Iy Oh Uu”. L’amore sta sospeso tra quel primordiale rifondare un linguaggio e usare quello usato e banale, anzi forse è meglio la semplicità del già dato perché «un linguaggio usato in modo ricercato/ è un linguaggio usato male». Lo dice chiaro in Arte che «l’amore non ha altra scelta che la lunga malattia dell’arte, la morte».

E così alla fine è “difficile” e insieme «giusto dire/ ti amo quando mi fai queste cose» sebbene se ne sappia la non-autenticità, l’uso convenzionale. È proprio l’atto erotico però l’unico luogo in cui ha valore anche una moneta fuori corso come il “ti amo”, il sesso stesso, come nella poesia Adulterio, è privo di linguaggio: la donna che dopo un pomeriggio con l’amante è sdraiata nel letto coniugale sa che tutto è un “copione” che scriviamo per trovare ragione «per la stessa cosa due volte», per quella “cosa” – si dice la donna – «lo hai fatto»: “scopato. Scopato” No. Quello era/ il verbo sbagliato. Questo è solo un nome astratto». Piuttosto che soffrire pene d’amore, meglio andare “a casa della bestia” ed essere quella che la domina, la usa.

Duffy ha la capacità di non sottrarsi al flusso del sentire erotico, amoroso, ma al tempo stesso decostruisce l’artificio retorico ogni ideologia dell’amore. Anche il migliore, il più convinto, finisce per avere un “rovescio della medaglia”: infatti quel “fingere di dormire” quando la amata si avvicina è già un “ritrovarsi all’inferno” della coppia e del potere sbilanciato. Resta allora il contatto erotico, il sesso separato da ogni falso ideale e ideologia,  l’unico atto che può affidarsi  paradossalmente alla semplicità del già detto, se esso è suggello di atto etico, oltre che erotico, un diverso comportamento di comunanza e «nessun giuramento scritto per averti in sposa» e  «nessuna regola per guidarti» : l’amore è quindi, forse con tratto postmoderno,  qualcosa da riscrivere con le parole già dette (la definizione di Umberto Eco “il postmoderno è dire all’altra persona come direbbe Liala ti amo” ) a patto che cambi davvero un paradigma e si rifiuti la relazione come contratto sociale.  Semmai, nel gioco del paradosso, le “nuove promesse” sono, in modo quasi punk, un colpo negativo: l’amante promette “di disonorarti d’ora in poi” e “di non prendermi cura di te nella vecchiaia” e in fondo “di non amare” se deve essere «un sonetto a dar prova / della stella che seguimmo». Perché “amore non è amore”, scrive Duffy. Svuotando ma usando quella parola già data. L’unica parvenza di “rito coniugale” per le due amanti nel letto nude è data da un gesto semplice e sciolto da ogni legame: solo “dal tuo cuore sul mio”.