È con ingiustificabile ritardo che recensiamo questo ponderoso volume di Saldapres dedicato a uno dei primi cyborg che hanno costituito con prepotenza il nostro immaginario: Robocop del regista Paul Verhoeven. In realtà il film del 1987 deve il proprio personaggio alla coppia di sceneggiatori Ed Neumeier e Michael Miner che erano certo entrati in contatto con le novità introdotte nella fantascienza dal gruppo di scrittori cyberpunk guidati da Bruce Sterling e William Gibson. L’idea dell’ibridazione uomo-macchina e del tormento che segue ad avere accostato, incastrato, fuso componenti biologici, meccanici ed elettronici nasce certamente da Frankenstein di Mary Shelley, ma esplode nella fantascienza quando il processo di sostituzione dell’umano e di componenti dell’umano con delle strutture artificiali inizia a dilagare.
Forse non è un caso che Robocop si svolga a Detroit, la città fabbrica dell’industria automobilistica statunitense, nel momento della crisi occupazionale e all’inizio del processo di sostituzione degli operai con i robot. Una crisi che rende Detroit una citta da fantascienza catastrofica, povera, violenta e degradata dalla recessione. In questo senso il film di Verhoeven diventa quasi radicalmente realista, amplificando gli elementi più violenti della vita urbana e lavorando sulle contraddizioni della politica e della mancanza di sicurezza percepita dai cittadini. Ma ciò che rende importantissimo il personaggio di Robocop non è solo la sinergia tra biologia ed elettromeccanica, ma il complesso sistema di coscienza che si viene a creare in seguito a questa ibridazione, come se il metallo mettesse in gioco una propria eredità di pensiero che entra in contraddizione con il ricordo dell’identità umana. La cultura cyborg dunque inizia avvertendo che si prospetta una nuova e non scontata identità che nasce dalla fusione di carne e metallo.
A partire da questo film, passando per Videodrome di David Cronenberg e da una miriade di soggetti che rapidamente si connetteranno in rete (basti pensare alla straordinaria serie TV di Max Headroom del 1987) si crea un modello culturale condiviso a livello mondiale (come dimostra il film Tetsuo di Shinya Tsukamoto del 1989) che teorizza l’avviarsi inarrestabile di nuove ambigue identità. L’immaginario che nasce dalla recessione economica mondiale e dalla diffusione di massa delle prime tecnologie digitali comporta dunque un corpo che rielabora se stesso attraverso le nuove tecnologie (potenziandosi e adattandosi) e una coscienza che è costretta a ricomporsi e modificarsi per integrarsi con nuovi corpi e, al contempo, iniziare a inoltrarsi nelle reti.
La fortuna del personaggio di Robocop era dunque inevitabile, come la sua capacità di saltare fra i diversi media, riproducendosi e autonomizzandosi passando dal cinema, al videogioco a fumetto. Ed è nel fumetto che il personaggio accelera le proprie potenzialità narrative, a partire dalla prima serie Marvel fino a questa edizione firmata Frank Miller e nata da due sceneggiature orfane di film. Infatti a Frank Miller venne assegnato il compito di scrivere il secondo e il terzo episodio della serie cinematografica, ma le sue sceneggiature risultarono eccessivamente violente e il progetto venne affidato ad altri scrittori che utilizzano parzialmente i suoi script. Ma le sceneggiature di Frank Miller non vengono completamente archiviate e grazie all’editore Avatar, Steven Grant adatta lo script cinematografico ai fumetti mentre a Juan Jose Ryp viene affidato il disegno.
Il risultato è la prima metà del volume pubblicato da Saldapress e intitolato Robocop, edizione definitiva. La seconda storia, intitolata Robocop: l’ultimo baluardo, è sempre sceneggiata da Grant, seguendo la scansione cinematografica di Miller, e disegnata da Korkut Öztekin. Difficile dire quanto ci sia di originale in questo Robocop e quanto è citazione, l’aggressività della narrazione e la ridondanza del disegno di Ryp sono in grado di saturare la pagina di violenza, menomazioni, sangue, volgarità verbali, ma anche ironia. Certo confluisce qui l’esperienza di Hard Boiled (iniziato nel 1990) che era stato disegnato da Geof Darrow, ma anche la distopia e il senso del grottesco di un grande classico come Transmetropolitan di Warren Ellis (un altro amante dell’estremo).
Una lettura impegnativa, quindi, in cui l’occhio rischia di perdersi nella ricchezza e nel sovraccarico dei riquadri alla ricerca di una storia sempre più flebile, ma il cui sfondo racconta il progressivo smantellamento del lavoro pubblico a vantaggio di aziende private, il progressivo impoverimento di una città, la disperazione diffusa che costringe tutti a lottare per l’immediato. Se la filosofia del testo della coppia Miller e Grant è coerente ne L’ultimo baluardo, il disegno di Öztekin è agli antipodi di quello di Ryp. Le figure umane sono sempre molto definite all’interno dei riquadri, gli sfondi sempre studiati per non rubare la centralità al primo piano, e forse questa tecnica accentua in alcune sequenze la drammaticità della storia.
Sempre Saldapress offre anche un doppio volume dedicato ancora al poliziotto metà uomo e metà macchina e intitolato Robocop. Vivo o Morto. La sceneggiatura di entrambi i volumi è scritta in dodici capitoli da Joshua Williamson, mentre il disegno di Carlos Magno si conclude all’ottavo capitolo, per lasciare a Alejandro Aragon e ad Amancay Nahuelpan il compito di arrivare, con grande coerenza stilistica, alla conclusione della storia. L’ambiente è sempre quello distopico di una Detroit abbandonata a se stessa dallo stato federale, in cui politica corrotta, interessi industriali e criminalità organizzata si scontrano con una violenza sempre più estrema. Ma la scrittura di Williamson lavora molto sottilmente sulle ambiguità delle situazioni all’interno di uno schema narrativa che è nato per infrangere confini culturali e percettivi convenzionali. Lo stesso protagonista è contemporaneamente eroe e antieroe, è infatti un cop, e quindi sempre fonte di imbarazzo per alcuni lettori che non amano il punto di vista sbirresco. È come se il corpo naturale e artificiale di Alex Murphy, pur abilmente interconnesso, sia tragicamente diviso dalla sua mente, sofferente per una serie di percezioni incoerenti che gli provengono da arti e organi eterogenei, costantemente confuso tra l’essere uomo e essere macchina. Questo cyborg ci viene presentato, anche nel fumetto, diviso da momenti umani e istinti, intervallati da esiti algoritmici, in qualche modo schizofrenico. Ma questa contraddizione vivente, ancora molto lontana dalla teorizzazione che Donna Haraway ha fatto del cyborg, incarna un ulteriore contraddizione che gli proviene dalle strutture narrative del romanzo poliziesco. Robcop rappresenta la contraddizione di essere il prolungamento operativo del potere, di farne rispettare le leggi senza preoccuparsi se sono o non sono giuste, senza riflettere sulla natura delle proprie azioni intrinsecamente funzionalu all’economia e ai suoi interpreti. Il nostro robopoliziotto è la metafora materializzata di una legge che non è giustizia e che rappresenta l’infiltrazione del crimine nelle istituzioni, un crimine che giunge dalle strade più buie e degradate come dai quartieri upper class del potere.
OCP sta per Omni Consumer Product, ovvero l’azienda che è sullo sfondo di ogni storia di Robocop e che è la rappresentazione dell’inevitabile rapporto malato tra capitale privato e servizio pubblico. L’azienda persegue un proprio progetto utopico, ambiguo e autoritario, che deve ripulire la città di Detroit dal crimine attraverso la messa in crisi e la successiva sostituzione di servizi pubblici come la polizia e l’ordine pubblico, e Robocop è lo snodo di questo processo di outsourcing che vede il potere politico e quello industriale fondersi ai danni della cittadinanza. All’interno di questo progetto politico raffinatamente neoliberista si sviluppa la rivolta popolare e populista di John Killian, demagogo protoleghista appena uscito di prigione, che fomenta la protesta dei cittadini a cui l’amministrazione comunale ha sequestrato le armi personali negandogli la possibilità della legittima difesa. La OCP (il cui simbolo richiama la bandiera nazista con la svastica nera in campo rosso) si pone dunque in un’ottica liberal, quasi europea, in cui i cittadini non si devono difendere da soli, ma il rispetto delle leggi è garantito da un’ente che, nel nostro caso, non è più un’istituzione pubblica ma un’azienda privata. Tuttavia negli Stati Uniti, il Secondo Emendamento, a partire dal 1791, stabilisce che possedere armi è un diritto dei cittadini proprio nella logica di poter esercitare una legittima difesa.
In Robocop. Vivo o morto sono i cittadini vessati dal crimine, le vittime, a insorgere contro un potere politico diventato aziendale che intende disarmarli e gettarli inermi in pasto al crimine per impedire loro di insorgere a difesa dei quartieri contro i progetti edilizi che intende attuare. Il nostro uomo-macchina, in realtà un lavoratore-macchinario in mano alla OCP, è raffigurato sempre con una ridotta capacità empatica, come se la componente elettronica e metallica avesse fortemente influenzato le sue capacità di ragionamento e inibito la sua componente affettiva. Robocop è un’arma contraddittoria che subisce in parte il complotto di potere che intende sottomettere e rigenerare la città, e in parte avvicinarsi alla sua partner di pattuglia, meravigliosamente attraversata da sentimenti ed emozioni. Come questa purificazione possa avvenire lo immaginiamo: attraverso una crudele gentrificazione che dovrà espellere i più poveri, i disoccupati e gli emarginati verso un altro sprawl urbano sovrappopolato. Ma, alla fine, da che parte si collocherà Robocop all’interno di questa lotta? Con nessuno, probabilmente, perché Robocop è proprio uno sbirro. Come stabilisce la più immediata traduzione di cop.
In chiusura una riflessione sull’atroce realismo di questo fumetto che ha trovato le sue condizioni di esistere in una città esperimento dell’ordine neoliberista. La Detroit di Robocop vive la disintegrazione sociale che non è tanto una conseguenza del potere sfrenato delle aziende e della loro impunibilità, ma è un elemento costituente, è una delle condizioni necessarie per attuare la transizione dallo stato sociale alla completa liberalizzazione dell’economia. La povertà, la flessibilità, l’individualizzazione sono raffinatamente progettate, e oggi, nei mesi dell’epidemia, viviamo anche noi in concreto gli effetti dell’egoismo produttivo, delle privatizzazioni, dei dislocamenti produttivi, della minimizzazione dei diritti individuali e collettivi.