Carmine Conelli / Ai confini dell’idea di Sud

Carmine Conelli, Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno, Tamu Edizioni, pp. 237, euro 16,00 stampa, euro 7,99 epub

“È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi / con i panni e le scarpe e le facce che avevamo”
Rocco Scotellaro

In attesa dell’imminente vittoria del terzo scudetto del Napoli calcio, il quotidiano Libero titolava “La festa scudetto pagata col reddito di cittadinanza”. In un piccolo riquadro colorato di blu e in due sole righe un’altissima concentrazione di stereotipi negativi associati al Sud: assistenzialismo, parassitismo, improduttività, sperpero di denaro pubblico e davvero tanto altro, in un quadro più generale di conservatorismo inteso a stigmatizzare il reddito come fonte di autonomia dei soggetti sociali. A decostruire proprio certi procedimenti discorsivi mira questo volume di Carmine Conelli, tra i fondatori del collettivo editoriale Tamu Edizioni – che sta ripubblicando con grande merito, tra tanto altro, i libri più radicali della pedagogia di bell hooks oltre alla rivista unica nel suo genere Arabpop – che è anche il frutto del lavoro nell’ambito degli studi culturali e postcoloniali dell’“Orientale” di Napoli fondati da Iain Chambers che qui firma una Postfazione.

Come è stato possibile, si chiede in sostanza Conelli, che l’idea di Mezzogiorno sia divenuta una formazione discorsiva talmente potente da continuare a (ri)produrre ancora oggi – e da circa trecento anni – un’idea di Sud arretrata, malata, socialmente e culturalmente inferiore? Attraverso otto capitoli sorretti da un formidabile stile divulgativo che non perde mai di vista i riferimenti scientifici – tutti rintracciabili in una ricca bibliografia –, questo volume restituisce un dibattito che, partito soprattutto in area anglofona perché a lungo tabù in Italia essendo il “Mezzogiorno” stretto tra i suoi feroci detrattori già citati e i suoi strenui difensori inclini a un certo essenzialismo meridionalista (un’idea di genuina spontaneità e di virtuosa lentezza), ha cercato di indagare i motivi per i quali questa grossa parte di penisola sia divenuta nella modernità un luogo in cui la modernità stessa fosse un progetto politico-sociale impossibile.

Conelli mostra invece come l’idea stessa di Modernità in Italia si sia potuta fondare proprio attraverso la conquista, il controllo e la repressione di un territorio in cui i pur numerosi ed effervescenti fenomeni sociali (si pensi alla rivolta guidata da Masaniello, la cui eco sconvolse anche il Nord America, dove si temeva un contagio della ribellione) non sono mai riusciti a trovare forme di allargamento della base di partecipazione o la costruzione di alleanze capaci di contrastare discorsi e violenza (anche) coloniale provenienti dai vari Nord.

L’autore sottolinea più volte come si sia trattato di un procedimento simile a quello messo in atto dalle grandi potenze coloniali europee in Asia, Africa e Americhe pur mettendoci risolutamente in guardia sul fatto che la conquista sabauda del Sud durante un Risorgimento qui potentemente rivisitato, non possa essere storicamente definita una “colonizzazione”, facendola anche finita con lo stanco dibattito imposto negli ultimi anni dal cosiddetto movimento neoborbonico, che ha provato a ribaltare lo stigma del Sud raccontandolo come mondo idilliaco.

Un dibattito che, come si legge tra le righe di questo volume, ha distratto dall’interpretazione delle asimmetrie Nord/Sud come un fatto di classe e di razza, cioè di come l’inferiorizzazione continua da parte delle classi dirigenti del nuovo Stato abbia incessantemente prodotto disuguaglianze. Da questo punto di vista, Conelli riprende la magistrale lezione dello storico indiano Ranajit Guha (1923-2023) recentemente scomparso, nel suo magistrale saggio La prosa della contro-insurrezione (1983, The Prose of Counter-Insurgency). Seguendo il metodo di Guha, Conelli ci mette di fronte alla lettura analitica e davvero epifanica dei testi (lettere, discorsi, direttive) di politici ed intellettuali che, prima e dopo l’Unificazione nazionale, discutevano e decidevano di cosa fosse il e cosa farne del Sud Italia e come contrastarne la complessa e animata composizione sociale (tutt’altro che passiva!).

Non manca l’autore di ricordarci che il lavoro di Guha e degli altri era stato reso possibile dalla lettura di una nota intitolata Storia della classe dominante e delle classi subalterne nel Quaderno 25 di Antonio Gramsci che aveva avuto una certa circolazione nel mondo di lingua inglese grazie a una “giovane ricercatrice napoletana di letteratura inglese, Lidia Curti, approdata nel 1964 al neonato Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham con una copia delle Lettere dal carcere di Gramsci sotto il braccio”. Il Gramsci di Birmingham servirà a leggere e interpretare pratiche culturali fondamentali quali quelle delle comunità di immigrati o quelle giovanili, mentre Curti contribuirà, insieme al già citato Chambers, a fondare la scuola di studi culturali e postcoloniali di Napoli.

Basterebbe la vicenda di questo Gramsci che viaggia in traduzione e torna in Italia – un ritorno che è già una reinterpretazione e una trasfigurazione – a sottolineare quella che, per chi scrive, è una delle qualità migliori di questo importante volume: mostrare attraverso documenti e analisi ben fondate come traduzioni e viaggi (di persone e di idee) rappresentino il motivo essenziale dell’identità italiana che è sempre (stata) un’identità in movimento e di confine.

In tempi di abuso di made in Italy come quelli che viviamo, dunque, questo “rovescio” della nazione può certamente essere (anche) inteso come la sconfitta senza appello di un’idea nazionalistica di nazione fondata su logiche monoculturali e chiuse nel claustrofobico recinto del confine peninsulare.