Una minima infelicità, opera prima di Carmen Verde, è il racconto dell’ossessione che la protagonista e voce narrante Annetta ha verso la propria madre, Sofia Vivier, nel desiderio di somigliarle e di essere da lei amata e apprezzata come figlia: “Non devo dimenticare che mia madre cercava solo di essere felice” dirà, giustificandola con rammarico per gli abbracci mancati. Ma questo è anche il racconto, del tutto scevro da sentimentalismi, di dinamiche familiari infelici e depressive che si perpetuano di generazione in generazione sino a rasentare la pazzia attraverso un silenzioso sconforto, agito da un incurabile bisogno d’amore che solo raramente si è riusciti a soddisfare: matrice di dolore che tutto infetta, tutto contagia, tutto annienta.
Fulcro della narrazione sono le molteplici sottrazioni che la vita può far accadere nello scorrere dei suoi giorni: sottrazioni d’amore, sottrazioni di denaro, sottrazioni di dialogo, e anche sottrazione di statura, sì, perché Annetta non crescerà in altezza palesando così al mondo intero le sue innumerevoli mancanze affettive, con tenacia e determinazione, proprio attraverso la sottratta fisicità. Docile e ubbidiente, non si ribella allo scherno con cui viene trattata dalle compagne di scuola a causa del suo corpo, corpo di cui lei stessa si vergogna, e le cui forme minute diventano ossessione, e unico punto di vista soggettivo dal quale farà scaturire ogni ragionamento. Dolente prospettiva che scredita la sua personale percezione del mondo: “Me ne sto dritta, inconsapevole del vuoto che mi preme sulla testa, il viso inespressivo”. L’inconsistenza dell’aria assume il peso schiacciante dell’infelicità “minima”, come già il titolo rivela.
I pensieri di Annetta, seppur limpidi nella loro esposizione al lettore, costruiscono in realtà un labirinto psicologico intricato in cui lei non ricerca la via d’uscita per la propria autonomia e la propria salvezza, ma, al contrario, essi diverranno un vortice che ingloberà le sue riflessioni e la sua intera personalità risucchiandola in un centro privo di tregua. Lì, immobile e minuta, lei avrà la consapevolezza che “sempre, alla fine, di tutto resta solo il nocciolo, come in una casa rimane solo una piccola stanza. Persino il mio corpo ha scelto per me l’essenziale, sapeva di non essere nato per grandi cose”. Ogni possibilità di azione viene quindi bloccata sul nascere, tanto da non desiderare più alcuna dinamicità vitale, tanto da restringere il campo d’azione all’esterno di sé. Tutto sembra implodere, accerchiandola, mentre lei restringe lo sguardo e si focalizza sull’infinitamente piccolo per raggrumarlo in una pseudo-unità e farlo arrivare alla cellula iniziale rappresentante la sua essenza di solitudine e di sottrazione. Chiusa in casa, nell’unica stanza, ridurrà la sua vita rinnegando ogni contatto, ingabbiando l’universo intero in un perimetro di congetture, un universo infelicemente minimo, inerte, sconfitto. “L’infelicità è un luogo, un luogo fisico, una stanza buia nella quale scegliamo di stare”. E Annetta ha scelto.