La costrizione nella poesia di Carmen Gallo: ha termini esatti, propri, tutti relativi all’umano nelle sue dimensioni terrestri – e sociali. Il gesto del teatro personale di questa autrice è rivolto a un orizzonte molto prossimo, appoggiato su gambe che danno la “giusta oscillazione” al corpo: il gesto atletico, probabilmente imposto, si rifà al gioco praticato nel mondo greco: l’ephedrismos. Ragazzini o giovani donne tentano di colpire una pietra lontana, e chi perde deve correre e cercare la pietra a occhi coperti portando sulle spalle il vincitore. La crudeltà è un fine che risalta nella ricerca poetica di Carmen Gallo, del tutto vitale e fondamento di ogni mobilitazione personale: ogni verso si rivolge ai partecipanti, ne scruta i timori e le paure, persino le ossessioni che da epoca lontana raggiungono gli attuali scuotimenti sanitari. Dalle pietre impolverate dell’antichità alle cliniche recenti, dove i sopravvissuti vagheggiano ancora i loro posti a tavola, il passo è più breve di quanto si possa pensare. E, in fondo, resiste il convincimento che qualcuno resti con noi, che possa amarci nonostante i colpi. Dai campi dell’agone all’aria quasi tranquilla di una stanza, qualcuno si ritrova con in mano un flacone di pillole. È allora che le stanze di Le fuggitive spiegano la loro presenza favorendo l’estensione della vita, nonostante tutto.
Il mistero di questo libro è propulsivo, ammette l’addentrarsi nei suoi numerosi percorsi comprese le zone dove uno slargo fa respirare – ma per poco. Subito dopo lo spazio è “indiviso”, troppo grande e senza ostacoli visivi perché si possa sfuggire alla persecuzione. È il tema portante di una ricerca che ha condotto la poetessa dall’esordio di Paura degli occhi – ossessiva ricerca del “falso” ottico e vocale – alla traduzione forte e decisa della Waste Land eliotiana. Carmen Gallo conosce benissimo quanto accade (di devastato appunto) se ci si costringe nello spazio dell’altro e il gioco, risolto in una sorta di rituale, porta a termine il proprio scopo. Viene da pensare, a chi scrive, che raramente ci si trova davanti a una biografia così poco elusiva, sommandosi al manuale conclusivo che in qualche modo spiega come uscirne vivi seguendo le divulgate strategie di “lotta o di fuga”. 22 componimenti neri e ricolmi di una disciplina filmica che s’impossessa di storie vecchie e nuove: dalla visita ai morti per controllarne la rovina alla finta Gare de l’Est parigina per ingannare i tedeschi, dalla musica stipata nelle sonde Voyager a vantaggio (o svantaggio) di civiltà lontanissime a Enzo e Mary narrati nello scabro La bocca del lupo. Cose e persone in caduta che questa poesia allena a non farsi troppo male, come se fosse possibile resistere alle malformazioni del mondo e di questa realtà che ci rende contemporaneamente vivi e morti.
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Indagare quel che c’è, e si nasconde ma non per sempre, dietro la curva: materia di indagine per la poesia che tenta di individuare i meccanismi di produzione umana, siano etici o religiosi o scientifici. La poesia di Laura Corraducci tiene il passo con chi dichiara a bassa voce il senso di una perdita, ascendendo all’archetipa figura di Maria ai piedi del figlio morente e infine trapassato. Religiosa o meno, la presenza del corpo è sempre in primo piano, mai completamente abbandonato dal fuoco. Sembra che per mettersi in salvo occorra sentire il grembo sciogliersi fino a quando la voce trasfiguri in presenze inumane – o quel che appaiono tali a chi si oppone alle violenze, agli stermini storici. E a quelli, muti, dentro le mura casalinghe. Per questo cercare, e trovare, il mondo di là del tempo è una scommessa che non pone vantaggi riconoscibili, se mai la percezione di condizioni ulteriori. Ma occorrono parole potenti, gesti fuori d’età. La lingua di Corraducci esplora senza sosta in questo libro della piena maturità raggiunta trascorrendo per intero nei pensieri di Etty Hillesum senza trascurare il destino visto perfettamente da Achmatova.
Perché il peso della storia non dà scampo agli eredi superstiti, da quella massa possono nascere sistemi filosofici d’opposta specie, e sguardi ora buoni ora terribili. Corraducci è poetessa che non svicola di fronte a corpi desueti che denunciano un confine e mettono al tappeto la diversità. Santi, pazzi e dèi attraversano da sempre le epoche, sembra inutile negarlo mentre è invece utile riconoscersi e attraversare le molteplici linee del pensiero umano quando si confronta con quello poetico. E c’è dunque posto per l’amore terrestre, nato nella terra e in essa rappreso come lava scesa a valle. Il Tour centrale nelle Highlands, compreso nel libro, ha il passo danzante di certi canti pastorali: vero intermezzo in cui batte il vento della creazione. Si vedono le orme degli umani quando si raggiungono l’un l’altro e i profumi percepiti sono quelli del maggio e della sua aria precisa. Ricchezze affettive, orgogli corporali generano fioriture molto somiglianti a una generazione nuova di versi la cui lucidità, di fronte al male e agli intrecci amorosi, diventa emblema spirituale però tenacemente adeso ai crinali del corpo.
Qualsiasi forma prenda la sostanza organica, sarà vivificata attraverso la lingua quando beneficia di una responsabilità che porta alla restituzione del racconto: vero quanto lo è il DNA trasportato dalle madri. Nei momenti di fiato corto i cardini sono lì, occorre riconoscerli. Il pensiero umile e diretto non è facile averlo, Corraducci irradia concretezza a ogni pagina, sfugge più che può l’astratto ben sapendo che bisogna lasciar perdere gli eroi ma tenersi stretta la disavventura etica di chi, dissimile, completa la mortalità di tutti.