Il libro di Carlos Castán si chiude con un dialogo, che è tutt’altra cosa della solitudine cui pure il suo museo è intitolato. Nei ringraziamenti ai suoi traduttori italiani, Alessandro Gianetti e Marino Magliani, l’autore parla di una traduzione che gli dà l’impressione di “passare in bella tutto il tremito del mio pensiero” e arriva a omaggiare l’italiano (già raggiunto, peraltro, con la traduzione di Federico di Vita di La cattiva luce, per Egg Edizioni, nel 2015) in quanto “lingua meravigliosa che per me è nata nelle lontane oscurità dei cinema di sabato (strade neorealistiche e dee di quartiere, terra che trema e biciclette rubate), il cui suono rendeva la vita un po’ meno dolorosa”. Dolore che invece permea tutti e dodici i racconti del libro: dei film del neorealismo italiano permane soltanto il bianco e nero, spesso rimescolato tumultuosamente da una costante pioggia battente, o addensato nella grigia nebbia che, in modo ricorrente, cala su tutte le cose, accentuando l’effetto di isolamento.
La solitudine, d’altra parte, è ciò che spinge a riflettere, parlare e raccontare, secondo una tensione duplice, a tratti schizofrenica, che tende, da un lato, al frammento (nella solitudine, si è spesso occupati interamente, e quasi in ogni momento, dall’essere soli), e dall’altro al monologo fluviale. Quest’ultima direzione è poi accentuata dallo stile di Castán, lirico e immaginifico – come si scopre già poche pagine dopo l’inizio del primo racconto, Viaggio di ritorno – fino a risultare “becqueriano, nella migliore accezione del termine» e, dunque, «post-romantico per eccellenza” – per stare alle definizioni, senza dubbio azzeccate, di Marta Sanz.
Nei racconti del libro, però, non vi è mai una deriva che sia pienamente sentimentalista, né gli squarci lirici riescono ad annichilire la vena narrativa dello scrittore che, ad esempio, in un racconto come L’aroma dell’oscurità (dove fa capolino quel “museo della solitudine” che dà il titolo all’intero volume) sfiora i territori del thriller e dell’horror. Di certo vi è spesso una spinta, inevitabilmente triste e senza consolazione, alla riflessività e alla meditazione, un tratto che accomuna molti dei personaggi, imprimendo virate improvvise verso i territori ora della filosofia, ora della tragedia (in senso esistenziale). Virate che riscattano la stessa scrittura “post-romantica” di Castán, che altrimenti rischierebbe di apparire come l’esercizio di stile di uno scrittore, magari alle prime armi, preso, come spesso accade, da quell’acerbo nichilismo che talvolta, specie in poesia, riceve la definizione di “maledettismo”.
C’è molto di più, in questo libro: lo segnalano i racconti già citati, che, insieme a Molte volte, cara Laura e ai conclusivi Frammenti di un album spezzato, rappresentano per chi scrive le punte più alte, fra le dodici narrazioni proposte. Ed è l’ultimo racconto, in particolare, a proporre due epigrafi egualmente importanti per decifrarne la scrittura.
Dell’accademico, narratore e poeta Rafael Argullol – nato nel 1949, e quindi di almeno una generazione precedente a quella di Castán, nato invece a Barcellona nel 1960 – è il monito sulla memoria e il suo “tribunale permanente anche se arbitrario”: una minaccia costante, nell’arco dei dodici racconti del libro, data l’influenza fondamentale che può avere la memoria, e le sue distorsioni, nel dare forma alla solitudine.
Segue una citazione da L’arco e la lira di Octavio Paz, il saggio dell’autore messicano (premio Nobel per la letteratura nel 1990) che ha avuto un’importanza fondamentale nella poesia in lingua spagnola del secondo Novecento. Conviene riportarla per intero: “Il poema traccia una linea che separa il momento privilegiato dalla corrente del tempo: in quel qui e ora comincia qualcosa: un amore, un atto eroico, una visione della divinità, un momentaneo stupore davanti a quell’albero o alla fronte di Diana, liscia come una muraglia levigata”. A questa concezione epifanica della scrittura poetica Castán accosta, implicitamente, una simile inclinazione all’epifania nella struttura del racconto, ribadendo, allo stesso tempo, e su un piano più squisitamente metaletterario, la propria invidia per la poesia. Un’invidia che, come si è già detto, porta a una sorta di imitazione (quanto alla forma, e non come giudizio di valore) che non è mai pedissequa o completa, lasciando margine a chi legge, nello spazio riservato allo scarto dell’immaginazione, per tornare a sentire anche la propria, irredimibile, solitudine.