Paul Dirac era rivolto a un futuro dove l’accuratezza d’immaginazione e esperimenti stringono amicizia con equazioni tanto ricche quanto belle. Nel tempo presente Carlo Rovelli racconta agli appassionati, agli studiosi, il suo libro più personale e ricco di senso del mistero, il mistero che Einstein caldeggiava affinché gli uomini non diventino “come morti” dagli occhi “offuscati”. L’idea che i buchi neri – quelle masse presenti a miliardi di miliardi nel cielo – alla fine della loro vita si trasformino in buchi bianchi diventa il racconto di un’avventura ancora in corso. Nasce anni addietro, nello studio dell’autore a Marsiglia, mentre l’amico americano Hal davanti alla lavagna cerca di spiegare come il tempo possa rovesciarsi e come le equazioni di Einstein in questo caso non cambino, funzionino ancora. Sul bordo di quegli strani oggetti che sono i buchi neri il tempo rallenta, lo spazio si strappa (tutto questo non piaceva affatto a Einstein). Se ipoteticamente varcassimo l’orizzonte di quel bordo ci troveremmo in una specie di imbuto – in fondo al quale cade la stella collassata che ha creato il buco nero – che andrebbe sempre più assottigliandosi fino a quando le distorsioni diventano infinite e le equazioni di Einstein smettono di funzionare. Alla fine della caduta, in una regione quantistica, si può immaginare un rimbalzo, potremmo vedere la vita di un buco nero “tornare indietro” come in un film: vedremmo un buco bianco.
Rovelli ci spiega con disegni, immagini dantesche (è la sua particolarità), interpretazioni colloquiali di equazioni altrimenti poco digeribili, quel che accade ai buchi neri che pullulano nell’universo (oggi li vediamo) quando si trasformano in buchi bianchi, elusivi oggetti del futuro: nessuno sa se ci sono davvero anche se al fisico piacerebbe molto che fosse così. La parte maggiore del suo lavoro in fisica teorica consiste nella descrizione matematica dello spazio e tempo quantistici: distinguere un buco nero da un buco bianco potrebbe essere impossibile, ma in questo campo le contraddizioni sono comuni come il pane, lo sanno bene prima di tutto gli scienziati che polemizzano anche fra loro. Da molti anni Rovelli, attraverso i suoi fenomenali libri in cui scienza filosofia e poesia si tengono ben stretti, racconta la storia del nostro universo e il funzionamento della realtà, che “non è quella che si vede” come dichiara il titolo (La realtà non è come ci appare) di una delle sue opere più famose.
L’universo nella mente dei fisici è alle prese con un continuo riaggiustamento – sempre più ci sembra, leggendo Rovelli, che le fratture di stampo filosofico fra Oriente e Occidente possano ricomporsi seguendo una grammatica del mondo più comunitaria. Se una equazione funzionerà oppure no può dimostrarsi vero o falso passeggiando sotto i grandi alberi di un bosco, oppure inoltrandosi nelle cantiche della Commedia dantesca. Rovelli poi ci racconta un gentile e divertente aneddoto: l’insegnante di fisica teorica Mario Tonin diceva ai dottorandi di Padova che secondo lui Dio legge sempre la famosa rivista di fisica “Physical Review D” e quando vi trova una idea che gli piace la applica immediatamente riassestando le legge universali.
Buchi bianchi è un profondo e ricchissimo exurcus riguardante la capacità umana di immaginare la realtà di cui facciamo parte, seguendo l’ordine delle cose che la matematica permette di visualizzare prima ancora che l’occhio e gli strumenti ci mettano davanti all’oggetto dell’indagine. Tutti noi ricordiamo la foto del buco nero che sta al centro della nostra galassia, con il contorno della materia incandescente che gli ruota intorno. Ancora venti anni fa molti scienziati dubitavano che i buchi neri esistessero. La scienza, insiste Rovelli, impara ricredendosi, andando a vedere con la matematica, l’intuizione, la logica, in giro per ogni dove dentro e fuori del nostro cervello. Dentro l’orizzonte.