1925: un ragazzo di 23 anni si ritira da solo qualche giorno d’estate a Helgoland, un’isoletta del Mare del Nord sferzata dai venti e dalle onde del mare, per sfuggire all’allergia da polline di cui soffre. Questo ragazzo è Werner Heisenberg, uno dei più grandi fisici del Novecento che proprio durante questo soggiorno elabora una complessa teoria matematica che è alla base della fisica quantistica.
In questo libro avvincente il fisico Rovelli ci guida nelle varie tappe di quella che è una vera e propria saga della fisica contemporanea e che non a caso Karl Popper ha definito come uno “scisma” con la fisica classica. La fisica quantistica rompe, infatti, la convinzione che dello stato di una particella si possa dare sempre una descrizione completa, prescindendo dall’osservatore. I tre pilastri sui quali si basa (la granularità, ossia l’energia si trasmette per piccolissimi grani, i quanti; l’osservabilità, cioè i risultati si riferiscono solo a risultati sperimentali e non a proprietà innate degli oggetti, indipendenti da chi li osserva; infine la probabilità, ossia lo stato delle particelle non è più caratterizzato, come nella meccanica classica di Isaac Newton, dai valori di quantità osservabili, ma richiede di misurare una distribuzione di probabilità per i diversi possibili valori) aprono da subito delle evidenti implicazioni filosofiche: “La scoperta della teoria dei quanti, io credo, è la scoperta che le proprietà̀ di ogni cosa non sono altro che il modo in cui questa cosa influenza le altre. Esistono solo nell’interazione con altre cose […] è a queste interazioni che dobbiamo guardare per comprendere la natura, non agli oggetti isolati.”
Queste affermazioni mi hanno rievocato subito l’incipt del Tractatus logicus-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, pubblicato pochi anni prima del mitico soggiorno di Heisenberg a Helgoland e che ho riportato nel titolo.
Le abilità di Rovelli in questo libro sono tante, anche perché si pone da subito nell’introduzione l’obiettivo di coinvolgere sia lettori inesperti della materia, sia i suoi colleghi in questo dibattito che si è sviluppato fino all’oggi, elencando le varie alternative di uscita dalle enormi difficoltà aperte dalla fisica quantistica e fornendone anche la sua interpretazione relazionale. Quelle che ho trovato più convincenti sono due:
1. La capacità di descrivere la storia della fisica innanzitutto in modo diacronico (dimensione che manca completamente nei programmi delle nostre scuole superiori ancora vittime di un’impostazione gentiliana), ma anche in modo umano, dipingendoci i protagonisti con i loro caratteri, i loro tic, i loro dubbi;
2. L’insistenza sull’interrelazione tra sapere scientifico e sapere umanistico, tra la fisica e le tante scienze correlate con la filosofia e con la letteratura, anche questa dimensione che manca spesso nelle nostra scuola italiana.
Il primo punto. Ecco quindi che sotto i nostri occhi si dipana una galleria di scienziati, tutti legati tra di loro, che discutono, smontano le teorie dei colleghi, ne colmano i vuoti. Di seguito un riassunto che ripercorre solo le tappe principali: le scoperte di Max Planck del 1900 secondo le quali l’energia del calore s’irradia per pacchetti, cioè solo per determinati valori possibili; Niels Bohr che riscontra la stessa discontinuità nelle radiazioni emesse dagli atomi; Heisenberg che nel suo ritiro a Helgoland elabora un complesso calcolo matematico per misurare la rotazione degli elettroni nelle loro orbite concentriche intorno all’atomo e il loro salto da un’orbita all’altra; la reazione di Erwin Schrödinger, che non vuole rinunciare alla fisica classica e che presenta una teoria alternativa per la quale la materia non è più un insieme di particelle, ma di onde che si propagano nello spazio; Max Born che applica l’equazione di Schrödinger non alla descrizione degli stati di un’onda, ma alla probabilità oggettiva di ottenere certi risultati durante l’esperimento. La Knabenphysik, la fisica dei ragazzi, la nuova fisica di questi scienziati tutti ventenni, a parte Born che è quarantenne, si concretizza in modo realistico davanti agli occhi del lettore. Su tutti incombe il gigante Albert Einstein che già nel 1905 ha capito che ci vuole una nuova fisica per indagare il mondo dell’infinitesimamente piccolo e che deve essere considerato il padre della teoria dei quanti. Lo stesso Einstein, però, insieme a Schrödinger, resiste alla nuova visione del mondo aperta da questa teoria, si rivela un conservatore, definendo stregoneschi i calcoli di Heisenberg e difendendo a oltranza il realismo, cioè la convinzione che le proprietà degli oggetti fisici esistono indipendentemente da chi le osserva. Rovelli non solo ci ricorda che la scienza è un gioco di squadra, che non si nutre mai di certezze, ma ci svela anche aspetti inediti del carattere dei suoi protagonisti.
L’altro punto di forza del libro, dicevo, è la capacità di Rovelli, dimostrata già nei precedenti volumi divulgativi (tra gli altri: Che cos’è la scienza, Mondadori, 2009; Sette lezioni di fisica, Adelphi, 2014; e L’ordine del tempo, Adelphi, 2019) di indagare la stretta interconnessione tra sapere scientifico e umanistico. Attraverso la teoria dei quanti “ […] un oggetto è uno, nessuno e centomila. Il mondo si frantuma in un gioco di punti di vista, che non ammette un’unica visione globale. È un mondo di prospettive, di manifestazioni, non di entità con proprietà definite o fatti univoci.” Tutto il Novecento letterario e filosofico viene coinvolto in questa interpretazione relazionale del mondo, per la quale non esistono oggetti fisici con qualità definite, ma rete di relazioni in cui gli oggetti sono nodi. Ma Rovelli fa incursioni in tutta la storia della filosofia, da Anassimandro, Eraclito, Platone alle più recenti posizioni nel dibattito sulle relazioni tra corpo e mente. E non solo nella filosofia occidentale: non a caso cita un filosofo indiano, Nagarjuna, che si avvicina di più alla sua visione del mondo, che non si traduce in un relativismo totale, ma nella ricomposizione dell’ordine naturale attraverso il fatto che i punti di vista comunicano, per cui è l’intersoggettività a fondare l’immagine oggettiva del mondo. Per questo monaco buddista vissuto tra il II e il III sec. d. C. tutte le cose, inclusi gli oggetti fisici e mentali, sono vuoti “nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro […] la realtà ultima, l’essenza, è assenza, vacuità. Non c’è.”
Tornano alla mente ancora le parole del grande Giacomo Leopardi, aggiungo io, che aveva già intuito e argomentato la relazione tra il vuoto e il nulla:
“Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò, la vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un voto universale, e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi.” (Zibaldone, 1898-1900)