Carlo Milani / Non lasciamo la tecnologia agli esperti

Carlo Milani, Tecnologie conviviali, Eleuthera, pp. 248, euro 17,00 stampa, euro 7,00 epub

Osserviamo per un attimo le tecnologie a partire dal nostro rapporto schizofrenico con i dispositivi digitali. L’incanto sensuale che procura al tatto la superficie liscia dell’ultimo iPhone e la furia violenta con cui lo vorremmo scagliare contro il muro, non appena si guasta o ci ossessiona con le sue notifiche. Il momento in cui si blocca e non da più segni di vita – che in genere coincide con quello in cui ci servirebbe per davvero – è anche l’attimo in cui attraverso le nostre aspettative frustrate assistiamo a una doppia mutazione: quella dello smartphone – da onnipresente e sottomesso tuttofare a essere tecnico antropomorfizzato (“lurido bastardo!”) e quella delle nostre certezze, scivolate improvvisamente nel limbo delle ipotesi più funeste per sprofondare, previa puntata verso Aranzulla,  attraverso strati di software e di hardware di cui è fatta forse la materia dei sogni e delle interfacce grafiche ma di cui la nostra consapevolezza aveva fatto fino ad allora volentieri a meno. È a questo punto che entra in scena l’esperto, in genere sub specie di Marco, il tecnico del negozio cinese all’angolo.

Tecnologie conviviali si presenta come un vivace e concreto prontuario pedagogico ma anche come un’originale riflessione sull’imperio e la remissività che caratterizzano gli ambienti delle nostre società tecnologiche. Quelle, tanto per capirsi, dove per vivere, lavorare o ordinare la pizza interagiamo in ogni istante con una rete di componenti – dalle saldature SMD dell’iPhone a un data center nelle profondità del mar della Scozia – e con una piramide di competenze specialistiche – l’esperto Marco, i laboratori Apple a Cupertino – a cui affidiamo le nostre mail, le nostre foto e i nostri soldi ma di cui non è previsto sapere un beato niente.

Il saggio di Milani presenta a sua volta stratificazioni e saldature intellettuali nell’offrire la descrizione di un’ecologia alternativa alla narrazione tecnocratica e determinista dominante e al sogno reazionario di un primitivismo regressivo. Superando le tradizionali marcature utilitaristiche (mezzo/fine, padrone/servo) osserva infatti che “gli strumenti tecnici sono l’ossatura del mondo umano (..) ma non sono solo strumenti utili ai nostri scopi, sono qualcosa di più perché con essi siamo in relazione da molto tempo come siamo in relazione con protozoi, cromisti, funghi, piante e animali”. Richiamando in servizio uno dei padri della cibernetica anni ’50, Norbert Wiener, e indirettamente forse anche Bateson, gli esseri umani figurano ora (più o meno consapevolmente) coinvolti in una rete di feedback e di retroazioni che li legano ai non-umani.  In questo ecosistema ibrido, Milani prende in prestito dai paleontologi Jay Gould e Elisabeth S. Vrba il concetto di “exaptation” – l’inversione che, nel corso dell’evoluzione, può assegnare a un organo una funzione diversa da quella originale – per descrivere l’intervento che nell’evoluzione tecnologica insinua le logiche di dominio, facendole prevalere su quelle della libertà. I due retaggi, passando per la casella Murray Bookchin, si intrecciano e si sovrappongono nella realtà funzionale ma opaca dei dispositivi digitali (e non). Una realtà concreta e materiale anche quando si presenta “smaterializzata” da un lessico interessato e condiviso (server virtualization, cloud, user interface, ecc).  Di qui nasce anche la faglia distonica tra esseri umani e tecnologici, che Gilbert Simondon definiva “alienazione tecnica” e che definirebbe, soprattutto oggi, la condizione dei dominati.

È possibile immaginare un diverso rapporto, conviviale, cioè poi paritetico e accogliente, con gli esseri tecnologici? Ma, prima ancora, tra esseri umani oggetto di una distribuzione così palesemente ineguale e rigidamente gerarchica del sapere/potere?  Secondo Ivan Illich la convivialità è soprattutto una questione di scala: nel mondo industriale, caratterizzato da regimi organizzativi ed economici “scalabili”, e inclini all’omologazione, è praticamente impossibile. Ciò malgrado, come il saggio suggerisce, “piccolo non è sempre bello”, e nella pratica mutualistica sarebbe meglio ripartire invece dall’applicazione del pensiero globale all’agire locale, accettando un certo “attrito” e una certa fatica implicite nella scelta dell’empowerment e della condivisione. Ad esempio, nella scelta di installare un proprio server e di collegarlo alla rete invece di affidarsi alle comode ma imperscrutabili infrastrutture di Microsoft e Amazon; o di usare software F/LOSS (Free/Libre and Open Source Software) per  comunicare al di fuori dei moloch di Meta e di Twitter/X. Scelte con un significato di per sé formativo,  per noi stessi e per gli altri, dettate da ragioni “estetiche”, cioè inerenti la percezione del mondo, e la promozione della biodiversità umana, prima ancora che da ragioni “etiche” o politiche.

Su questa strada ci viene incontro la vecchia attitudine hacker, quella che ti fa smontare un giocattolo per capire come funziona dentro ma soprattutto per cominciare a giocare veramente. Di qui l’idea di una “pedagogia hacker”, che il libro, rifuggendo da un sapere troppo discosto dalla pratica dell’esperienza, presenta a ogni capitolo attraverso esempi, metafore e vari episodi di formazione, secondo un approccio che nelle sue linee programmatiche “rielabora e meticcia diverse tradizioni, in particolare l’apprendimento esperienziale di David Boud, Ruth Cohen e David Walker (1993), i metodi d’azione di Jacob Levi Moreno (2007) e la pedagogia critica di Paulo Freire (2014)”.

L’impianto metodologico appare solido e convincente. Volendo trovare un suo limite questo non va cercato nel suo “punto di utopia”, rivolto a un’utopia esperibile e concreta, quanto forse in una delle assumption iniziali del libro: che, cioè, miliardi di persone usino effettivamente i social o gli smartphone nel modo prescritto (e raccontato) dai padroni delle piattaforme. E che gli eventuali scarti non essendo rilevabili, se non nella generalizzazione della propria esperienza personale o didattica, non siano di per sé rilevanti (benché la parabola di “Linux desktop per il popolo” degli ultimi venti anni sembra suggerire ad esempio, al di là del suo fallimento, una sociologia più complessa).  Si tratta del resto di una premessa difficilmente aggirabile, stante l’asimmetria stessa del dominio tecnologico che, governando la conoscenza della tecnica, determina anche la non conoscenza degli umani.

Tecnologie conviviali lega la riflessione sullo hacking alla tradizione del pensiero libertario, purgata da residui positivisti, consegnando alla fine uno strumento oggi senz’altro raccomandabile a qualsiasi insegnante soggetto a una grottesca enfasi dell’innovazione che poi si riduce solo in lavagne virtuali, aule a distanza o alla suite Google per la scuola.  Lo fa con una visione sistematica e brillante dell’evoluzione tecnologica per certi versi accostabile, anche se da diversa angolazione, a quella di William Brian Arthur (La natura della tecnologia, Codice 2009), a partire in fondo da un assunto comune o nemmeno troppo dissimile: “La tecnologia è troppo importante per essere lasciata agli esperti”.