Carlo Greppi, o la dannazione del luogo comune

Carlo Greppi, Si stava meglio quando si stava peggio, Chiarelettere, pp. 191, euro 15,00 stampa, euro 9,99 epub

Quante volte in una discussione, seduti a un bar, in treno, su un autobus, abbiamo provato un moto di fastidio nel sentire qualcuno, magari un parente, un caro amico, proferire uno stereotipo, ripetere bovinamente frasi ascoltate milioni di volte, tipo: “Eh, i giovani d’oggi sono tutti ignoranti”, o “Ai nostri tempi sì che la scuola era una cosa seria”, o ancora “Non esiste più la destra e la sinistra”, “Io non sono razzista, però”, e così via? Da queste e altre proposizioni largamente condivise parte Carlo Greppi, in un suggestivo volume che nel titolo riprende forse la regina tra le frasi fatte: Si stava meglio quando si stava peggio. 20 luoghi comuni da sfatare, edito da Chiarelettere.

Greppi è uno storico di vaglia, attivamente impegnato nella divulgazione, e questo libro s’inserisce nella lunga scia di altri che hanno affrontato il problema. Già nell’Ottocento se ne occupò Gustave Flaubert, nel suo Dizionario dei luoghi comuni, e negli anni Venti del Novecento il giornalista Walter Lippmann, autore di un classico sul tema, L’opinione pubblica. Più di recente, si segnalano il seminale studio di Roland Barthes, Il luogo comune (1979), e altri apparsi negli ultimi anni, tra i quali quello di Stefano Bartezzaghi, Banalità. Luoghi comuni, semiotica, social network (2019), e di Francesca Vecchioni, Pregiudizi inconsapevoli. Perché i luoghi comuni sono sempre così affollati (2020). Il tema, particolarmente sentito nella nostra epoca, s’interseca con altri – le fake news, la creazione del consenso, l’orientamento delle masse, la deresponsabilizzazione politica, ecc. – con i quali compone la fetida infosfera in cui siamo immersi.

Il luogo comune, con la sua inconsapevole interiorizzazione, può produrre esiti perniciosi. Rimanere nel solco del pensiero già tracciato, accettare acriticamente slogan e idee prive di contenuto e di verifica col reale solo perché ripetute di continuo, è infatti pericoloso a livello individuale ma soprattutto sociale. Perché molti dei luoghi comuni cui aderiamo senza aprire le parole, senza cercarne una corrispondenza fattuale, riguardano la sfera dei diritti, dell’educazione, della democrazia: il cuore del vivere civile. Ed ecco allora la ragione di questo libro, dedicato a chi abbia voglia di confrontarsi, di porsi delle domande, di “mettere al vaglio dei fatti” le proprie affermazioni e convinzioni.

Greppi si sofferma su concetti basilari, sui quali sono costruiti i luoghi comuni, sulle sottili ma decisive differenze che sfuggono a chi va ripetendo quei “brani prefabbricati di linguaggio”, come li definiva Roland Barthes, che si configurano come veri e propri riflessi condizionati.

Per esempio, nel motto “È giusto perché lo dice la legge”, focalizza l’attenzione sulla differenza tra i concetti di “legalità” e di “giustizia”, o in quello “È un mio diritto”, tra “diritto” e “privilegio”. Oppure, stimola la riflessione del lettore decostruendo alcuni slogan: “Bisogna stare uniti”. Già, ma uniti chi? “Anche quella dell’unità è una categoria del pensiero priva di significato, se non viene riempita di un contenuto specifico”, ci mette in guardia l’autore, poiché frasi del genere implicano sempre l’inclusione di un gruppo (nazionale, sociale, razziale, religioso, ecc.) e l’esclusione di un altro: dunque, il discorso è eminentemente politico.

E a proposito di politica, si smonta un’altra classica proposizione trita e ritrita: “Non esistono più destra e sinistra”. Citando Bobbio, Greppi mette in chiaro che dietro queste due parole, “destra” e “sinistra”, si celano due atteggiamenti e visioni della vita antitetici, indipendentemente dalla crisi delle ideologie intervenuta negli ultimi decenni.

Il discorso si fa particolarmente interessante sul concetto di storia: Greppi analizza alcuni luoghi comuni diffusissimi, sui quali si tende ad aderire senza aprire le parole e i significati che li compongono: “È la nostra storia, non si cancella”. Dunque, si chiede l’autore, la storia non si riscrive? Ovviamente sì. O ancora: “La storia la scrivono i vincitori”. Ne siamo proprio sicuri? Come si spiega allora che nella memoria pubblica italiana le opere autobiografiche dei fascisti della Repubblica sociale italiana sono legione, maggiori di numero rispetto a quelle degli ex partigiani, così come sono innumerevoli i libri di storia che raccontano la Seconda guerra mondiale e la guerra civile italiana dal punto di vista dei perdenti?

Si prendono in considerazione poi dei luoghi comuni che hanno un enorme impatto sulle nostre coscienze etiche e politiche, relativi a temi delicati che finiscono per orientare i nostri atteggiamenti, come ad esempio la classica frase: “È la nostra identità/cultura, non si può modificare”. Qui l’autore si serve di Primo Levi e della sua magistrale riflessione sul bisogno umano di “ridurre il conoscibile a schema”, dunque a semplificare drasticamente la realtà, e sulla tendenza manichea tipica dell’essere umano di dividere il campo fra “noi” e “loro”. Sono pagine interessantissime, il cui approdo è che la cosiddetta “identità collettiva”, su cui si basa il processo di identificazione, è in realtà una costruzione culturale, non qualcosa di “naturale”, di dato e di immodificabile.

Pagine altrettanto cogenti affrontano il tema del razzismo, col diffusissimo stereotipo “Io non sono razzista, però”, mentre un altro luogo comune, “Sono le nostre radici (come se gli esseri umani fossero piante)”, dà modo all’autore di svolgere una riflessione sul ruolo delle metafore nella nostra percezione della realtà.

A esse è dedicata un’intera sezione: “Essere invasi” dai migranti, per esempio, o la metafora bellica che ci ha tormentato per mesi, usata dai media per descrivere la situazione determinata dalla pandemia, “È come essere in guerra”, o quella ridicola (se non fosse drammatica), “Esportare la democrazia”, (cos’è, una merce?, ci si chiede) sulla quale gli Stati Uniti hanno edificato decenni di massacri e di spoliazioni con le varie operazioni “Enduring Freedom” e “Iraq Freedom”, dove la “libertà” evocata da questi slogan era unicamente quella dei gruppi di potere che quelle guerre avevano voluto, libertà di perseguire i propri interessi economici, energetici e geopolitici nei Paesi che avevano occupato – quelli sì invasi!

Molto pertinentemente, il libro si chiude con un breve ma denso capitolo, “La ricerca delle responsabilità”: “storiche e attuali, personali e comunicative”. Il discorso riguarda tutti, sia chiaro, poiché l’intento del libro è responsabilizzare ognuno, per quanto possibile: “Sapersi muovere tra fatti e opinioni, alla ricerca di un ancoraggio che ci possa aiutare quando si parla di diritti, di cultura e di educazione, è fondamentale per la nostra crescita come esseri umani. Come persone adulte, capaci anche di modificare le proprie convinzioni”.

Che poi, si sa, è la cosa più difficile. Ma se addentrarsi nel territorio di ciò che conosciamo e di come ce lo raccontiamo, metterlo alla prova dei fatti, è certamente un processo faticoso, è anche un’esperienza entusiasmante: “Ci aiuta a pensare, a non cascare come pesci nella rete di chi semplifica la realtà per mettere la famiglia umana in conflitto perenne”. Vale dunque la pena di impegnarsi, no?