Carlo Greppi / Guerre, Resistenze, Memorie

Carlo Greppi, Il buon tedesco, Laterza, pp. 268, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub

Nel novembre del 1932, in quelle che sono considerate le ultime elezioni libere della Germania, i partiti della sinistra tedesca (va detto su posizioni reciprocamente inconciliabili) ottennero il 37,3%, mentre il Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Tedeschi il 33,1%. Nelle elezioni del marzo 1933, con Adolf Hitler nominato Cancelliere, l’incendio del Reichstag, una serie di brogli e intimidazioni, e una violenta repressione delle opposizioni e dei sindacati, i comunisti e i socialdemocratici raggiunsero ancora il 30,5% e i nazisti il 43,9%. Questa divisione politica della società tedesca, e soprattutto la tenuta della classe operaia metropolitana, è analizzata in due volumi che meritano sempre di essere letti: L’altro movimento operaio di Karl Heinz Roth (Feltrinelli, 1976) e Nazismo e classe operaia di Sergio Bologna (Shake, 2018). Possiamo quindi abbandonare il mito di un consenso assoluto al nazismo, anche perché un diffuso fenomeno di resistenza fu attivo in Germania dal 1933 al 1945, con decine di miglia di morti e quasi un milione di internati nel lager. Questa realtà storica è stata scientificamente occultata per decenni, soprattutto per negare la natura di classe delle dittature del fascismo europeo, la loro alleanza con i capitalisti in funzione antioperaia e antisindacale. Questa eterogeneità politica del popolo tedesco non può che essersi declinata all’interno dell’esercito, anche se ha stentato a manifestarsi a livello di massa e ha preso corpo con una miriade di azioni individuali o di piccoli gruppi. Una lunga resistenza che dalla Antifaschistische Aktion ha impegnato gli antifascisti tedeschi nella Guerra di Spagna e in tutti i fronti, tra cui quello terribile della Guerra Civile italiana. Spesso, soprattutto fuori dall’Italia, si osserva il fatto che la Resistenza antifascista tedesca sia stata la più lunga e quella italiana la più corta. Ovviamente non si intende stabilire un primato, ma semplicemente riportare alla realtà delle fonti un periodo estremamente strumentalizzato e oggetto di un odioso revisionismo.

Il buon tedesco è un libro dedicato al capitano Rudolf Jacobs e ai soldati tedeschi, austriaci, cechi e delle altre nazionalità intruppate nell’eterogeneo esercito del Terzo Reich, alla ricerca dei sopravvissuti di quell’ampio fronte popolare che si era opposto con tutti i mezzi al fascismo. Oltre che un libro che ci racconta la storia poco nota dei disertori tedeschi – o forse dovremmo meglio dire di coloro che finalmente trovarono le condizioni per poter praticare il loro antifascismo, temprato e confermato dall’esperienza della guerra – ci troviamo di fronte a una lucida e ampia riflessione sul significato che ebbe il conflitto mondiale e la nostra Resistenza. Comprendere che fu, a livello di scelte personali, la prosecuzione della lotta politica che era avvenuta in ogni nazione in cui il fascismo si era organizzato, ovvero una lunga guerra civile europea che si sovrappone e si interseca alla guerra convenzionale delle nazioni e delle loro classi dirigenti, all’espansionismo e alle sue ragioni economiche e, inevitabilmente, a miti funesti e a utopie razziste, a frustrazioni personali e di classe.

Dunque le resistenze europee, appena riescono a organizzarsi, riportano coraggiosamente il conflitto al livello politico, combattendo una guerra nella guerra. Le memorie locali, affidate ai singoli Istituti Storici della Resistenza, i monumenti e le targhe sparsi per i cimiteri e le montagne, testimoniano l’ampiezza dell’alleanza che fu la Resistenza italiana, così come accadde in Grecia, nei Balcani e in Francia, dove il contributo offerto dagli italiani fu numeroso e fondamentale. Sui disertori, un termine che ho difficoltà a usare per queste persone, troviamo il saggio Disertori alla macchia. Militari dell’esercito tedesco nella Resistenza parmense di Marco Minardi (Clueb, 2006), il recente Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana di Mirco Carrattieri e Iara Meloni (Le piccole pagine, 2021) oltre alle pubblicazioni dedicate a Rudolf Jacobs come il fumetto Rudolf Jacobs. Un ricordo indelebile (ANPPIA, 2008), il volume L’uomo che nacque morendo di Luigi Monardo Faccini (Edizioni L’Unità, 2006), la raccolta Rudolf Jacobs. Le radici della democrazia europea curata da Lorenzo Vincenzi (Res Edizioni, 2004) e il film Tradimento di Ansano Giannarelli (RAI, 1984).

La lezione di metodo storico attuata da Carlo Greppi ci offre l’opportunità di seguire il crocevia di quelle tre anime della Resistenza, descritte da Claudio Pavone, che sono la guerra di liberazione nazionale (con il suo portato patriottico), la guerra civile tra antifascisti e fascisti, la guerra di classe, a cui si aggiunge la dimensione europea che, in qualche modo, pone in attrito la prima anima con le altre due. Questo contesto complesso prende il capitano Rudolf Jacobs della Kriegsmarine come centro di una narrazione che si articola nella metà dell’Italia posta sotto il dominio delle alleanze del fascismo europeo. Il suo caso è forse il più noto e il più documentato, citato nella seconda edizione del classico Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, sepolto nella sezione partigiana del cimitero di Sarzana, commemorato e ricordato dai compagni di lotta della Brigata Garibaldi Ugo Muccini, Jacobs è il più importante dei “tedeschi buoni”, ovvero di coloro che seppero reinterpretare il conflitto in atto e cercare di indirizzarlo verso un diverso progetto politico. Tra le molte prospettive, il pacifismo immediato era forse l’urgenza che lo spinge alla scelta radicale della lotta partigiana antifascista. Che non si sia trattato di mero opportunismo (atteggiamento dilagante tra i fascisti italiani orientati dall’evidente immanenza della sconfitta) è documentato dalla sua storia personale, dalle sue scelte di capitano tedesco che era intervenuto a sanzionare le illegalità della borsa nera e le basse ruberie dei fascisti locali, guadagnandosi per la sua evidente umanità l’appellativo di “tedesco buono”. Anche grazie alla insolita distribuzione di alimentari riservati ai militari tedeschi alla popolazione, Jacobs si era già guadagnato la salvezza, essendo conosciuto e stimato, ma, evidentemente, la dimensione di offrire ogni contributo possibile alla fine del conflitto e a ridurre i danni, anche di una sola vita umana, lo spinge a quella scelta radicale condivisa e diffusa tra diversi soldati tedeschi e austriaci. Sulla sua sincerità nessuno ha nutrito dubbi, anche per la risolutezza del suo contributo e la scelta di condurre un attacco al comando della Brigata Nera che gli sarà fatale.

Ma il lavoro di Greppi è caratterizzato dalla costante ricerca di un senso che riesca a superare l’attenzione sul singolo personaggio, per cercare di comprendere, e di condividere, la trama di rapporti ed esperienze che, sul modello della Guerra di Spagna e delle altre Resistenze europee, vede il nostro conflitto civile come elemento del laboratorio della resistenza mondiale al fascismo. Una domanda, neanche sotterranea, attraversa il libro: come si è conclusa questa guerra, e chi sono stati i vincitori? È indubbio che, come nella Germania Occidentale, in Italia la nuova società non fu presa in mano dai resistenti ma dai più abili a gestire studiate forme di compromesso e dai professionisti del cinismo. Opportunisti, traditori e voltagabbana che all’interno di una repubblica formalmente antifascista esercitarono fino a oggi i principi elitari, la violenza poliziesca, l’autoritarismo, la disuguaglianza che furono i contenuti del fascismo solamente sottratti all’apparato formale con cui il regime esteriormente si compiaceva. Forse la lettura di un importante volume come I Benjamin. Una famiglia tedesca (Sellerio, 2015) di Uwe-Karsten Heye, in cui si segue la figura di Hilde Benjamin (la cognata del filosofo Walter), ci consente di comprendere cosa sia mancato in Italia e nella Germania Occidentale nel processo superficiale di superamento del fascismo. E mentre i fascisti tedeschi, ben più compromessi, ottenevano il perdono per i loro crimini ed erano accolti con rispetto nelle comunità di origine, il ritorno dei combattenti tedeschi della Resistenza fu sostanzialmente bollato di tradimento. Molti di loro, spesso arrestati dopo la Liberazione, decisero di rimanere in Italia, accolti e protetti dalle comunità per cui avevano combattuto.