Carlo Ginzburg / “Una perdita gravissima” (lo smarrimento della percezione storica)

Carlo Ginzburg, La lettera uccide, Adelphi, pp. 252, euro 30,00 stampa, euro 14,99 epub

Carlo Ginzburg ci ha abituato a libri che sin dai titoli richiedono uno stimolante impegno interpretativo. Il suo ultimo lavoro, La lettera uccide, conferma questa tradizione. Il volume, dedicato a Roberto Calasso, con il quale l’autore ne aveva discusso il progetto, è corredato di un’illuminante prefazione dello stesso Ginzburg, eleganti illustrazioni in carta patinata e un utile indice dei nomi, e raccoglie undici saggi pubblicati nell’ultimo ventennio, più due inediti. I temi affrontati sono vari, ma attraversati da elementi ricorrenti, il cui filo conduttore è proprio nel titolo, tratto da una citazione di Paolo di Tarso, “La lettera uccide, lo spirito dà vita”, con la quale egli contrappone alla legge giudaica – in cui era nato – la nuova fede da lui fondata. Una metafora, certo, che Ginzburg, con la strategia che gli è propria, intende rovesciare: “la lettera uccide chi la ignora”. Gli studi proposti sono quindi stati scritti nella prospettiva opposta a quella suggerita da Paolo: “Far emergere la complessità che si nasconde nella dimensione letterale di un testo – di qualunque testo”.

Si tratta di “esperimenti” ermeneutici dettati da una spiccata curiositas che conduce l’autore per boschi critici non poco intricati, da cui riemerge, un po’ come Pollicino con i suoi sassolini, grazie al piglio filologico e alla grande erudizione che gli permettono di rintracciare relazioni, cogliere legami, svelare tracce nascoste dal tempo e dall’oblio.

Dall’esegesi letterale di passi biblici, alle epistole di Paolo, ai saggi di Montaigne, alle notazioni sui riti indiani e giudaici di un personaggio settecentesco che si firmava Monsieur de la C.***, a brani di Marc Bloch, di Eric Auerbach, di Ernesto De Martino, l’indagine sulla dimensione letterale dei testi analizzati apre multiformi prospettive di ricerca, tra loro connesse. Innanzitutto, la ricezione di questi testi, un fenomeno ancora poco esplorato nelle sue implicazioni, mirabilmente affrontato nel saggio Le nostre parole, e le loro. Riflessioni sul mestiere di storico, oggi. Ma anche il tentativo di afferrare “qualcosa che avrebbe colto di sorpresa” chi quei testi aveva scritto, per esempio esaminando una parola (rite) che genera nuove interpretazioni sulla questione dei riti cinesi nell’evangelizzazione dei missionari cristiani del ’600, oggetto sin d’allora di vivaci discussioni; o la certosina indagine dei rapporti tra Machiavelli e Michelangelo svolta attraverso testi di storia dell’arte e l’interpretazione del passato (Plasmare il popolo. Machiavelli, Michelangelo); o ancora, la stringente rilettura critica di alcuni passi del Trattato teologico-politico di Spinoza riguardanti i concetti di “profezia” e “rivelazione”, una frase apparentemente sorprendente di papa Francesco, e molto altro.

Maestro della lettura lenta, approfondita, cioè di filologia, anche con questo suo libro Ginzburg ci insegna dunque a leggere tra le righe, a scavare tra le pieghe ambigue delle parole, nei meandri culturali e psicologici degli stessi scrittori, che spesso inconsapevolmente ci dicono anche ciò che non intendevano dire, gettando obliqui lumi su epoche e momenti storici a noi lontani. Una metodologia critica che dichiaratamente allude agli insegnamenti di Leo Strauss, ma che l’autore fa soprattutto risalire agli “indimenticabili” seminari pisani di Delio Cantimori che ebbe la ventura di frequentare. Una forma di esegesi tuttavia arricchita – e qui giace l’originalità dei procedimenti di Ginzburg – da una “produzione deliberata del caso”, come illustrato nel saggio Conversare con Orion, in cui l’autore, mettendo anche in risalto l’aspetto ludico della ricerca, l’esperienza emotiva e intellettuale, racconta come, interrogando il catalogo on-line della Research Library della University of California, Los Angeles (che ha preso il nome dal suo programma, appunto Orion), alle volte si proponga di trovare “ciò che non cerco affatto, anzi ciò di cui non sospetto nemmeno l’esistenza”. È anche questo una sorta di esperimento: il reperire, mediante il caso, un tema di ricerca, un procedimento che permette l’affiorare di elementi insospettati, e produce esiti non di rado sorprendenti.

La lettura di casi specifici proposta in questi studi ­– con la circoscrizione dell’ambito di analisi, lo sguardo analitico, l’uso di digressioni, la riflessione sui risultati – è comunque riconducibile nell’alveo metodologico della microstoria ­– della quale Ginzburg è notoriamente uno dei padri e più acuti esponenti. In quest’ottica, la rivendicazione dell’importanza della lettera si accompagna a una prospettiva che permette, dichiarando le premesse teoriche e sottolineando le implicazioni politiche delle analisi proposte, di attuare, con procedimento induttivo e al di fuori di canoni stabiliti, una forma di “close reading di casi anomali”. Siamo nel cuore del progetto intellettuale e militante portato avanti dallo storico torinese: non sfuggirà che l’insistenza sulla feconda ricchezza delle anomalie, delle eccezioni, delle singolarità, assume un ben preciso valore in un periodo storico come l’attuale, caratterizzato dall’accentuata omologazione del pensiero e delle coscienze, dalla globalizzazione dell’immaginario e dalla tirannia dei big data. Perché Ginzburg, come tutti coloro che vengono da lontano e vedono lontano, è più che mai impegnato nella drammatica lotta contro la “perdita gravissima, ma non inevitabile” della percezione storica, e con questi saggi, davvero molto “saggi”, indica una via: “Recuperando lo spessore della storia, il mondo in cui viviamo risulterà diverso, più complesso, più ricco. E forse, per riecheggiare una frase famosa, la percezione di questa complessità aiuterà a cambiarlo”. In fondo, il futuro è nelle nostre mani – di noi tutti. Basta esserne consapevoli, e agire di conseguenza.