I benandanti, lo studio di Carlo Ginzburg sulla stregoneria e i culti agrari a essa connessi a cavallo tra il XVI e il XVII secolo nel territorio del Friuli, apparve nel 1966, edito da Einaudi. Per la materia trattata, le novità metodologiche e la profondità di analisi, il volume riscosse un notevole consenso, segnalando all’attenzione del mondo culturale un giovane e agguerrito studioso. Non si è trattato di un successo fugace, come talvolta avviene per opere che dopo qualche lustro perdono di fascino, ma di un interesse costante nel tempo: il libro è assurto tra i classici, status testimoniato anche dal fatto che a tutt’oggi è stato tradotto in ben undici lingue.
Nell’ambito della ripubblicazione degli scritti dello studioso torinese, l’editore Adelphi lo ha ora riproposto nella collana “L’oceano delle storie”, in un’edizione curata da Francesca Savastano e corredata della prefazione originale, di un Post scriptum apparso nell’edizione del 1972 e di una illuminante postfazione.
Centro di questa ricerca sono i benandanti, donne e uomini che costituivano una sorta di setta iniziatica, dedita a un rito agrario di origine ignota, “conservatosi straordinariamente vitale quasi sino alla fine del ’500”. Loro contrassegno distintivo era l’esser nati con la “camisciola”, cioè involti nella membrana amniotica, circostanza questa che li costringeva a uscire nottetempo in spirito tre o quattro volte l’anno, durante le tempora (ricorrenze risalenti a un antico calendario agricolo, tardivamente entrate a far parte di quello cristiano), per combattere armati di rami di finocchio contro le forze occulte che insidiavano la fertilità dei campi, incarnate da streghe e stregoni, muniti invece di canne di sorgo. In caso di vittoria i raccolti sarebbero stati copiosi, se sconfitti sarebbe seguita una carestia: appare dunque chiara la loro funzione propiziatoria.
Il culto, rintracciato con l’ausilio dei verbali dell’Inquisizione e con uno studio iconografico, non era un residuo fossilizzato: nello scorcio tra ’500 e ’600 era ben vivo, pullulante di particolari pittoreschi. Ma i benandanti erano portatori di una cultura “irriflessa, spontanea”, e le loro credenze non avevano “cittadinanza negli schemi teologici, dottrinali, demonologici della cultura dominante”: esse costituivano “un’escrescenza irrazionale”, e dunque andavano ricondotte in quegli schemi e sparire. L’assimilazione di tali credenze alla stregoneria era quindi inevitabile, e nel giro di un secolo quei convegni notturni volti a procurare fertilità si trasformarono in sabba diabolico.
Il recupero alla memoria dei benandanti non costituiva l’unico elemento di novità di questa ricerca: nuovo era anche l’approccio metodologico. Focalizzando lo sguardo sugli atteggiamenti religiosi e sulla mentalità della società agricola friulana, si cercava di rintracciare le voci dei contadini, il loro universo di miti, leggende, superstizioni. Studiando le trascrizioni dei processi Ginzburg riesuma e riporta in vita le vicende di donne e uomini solitamente esclusi dalle ricostruzioni storiche, il nucleo di credenze genuinamente popolari che informava le loro vite. Con commenti sapidi e incisivi, egli rianima morti verbali disseppelliti da polverosi archivi, rendendo in vivide immagini le scene drammatiche degli interrogatori, le schermaglie, gli affondo dei cavillosi inquisitori nei ventri molli di quei popolani spaventati e disperati.
Nel quadro storico della stregoneria, il ribaltamento di prospettiva non è cosa da poco: all’epoca in cui il libro vide la luce l’analisi della gran parte degli studiosi si orientava verso inquisitori e demonologi. Come lo stesso autore ricorda, studiare la persecuzione della stregoneria era allora, per uno storico, “un tema ammissibile ma inconsueto”, mentre studiare le vittime di tale persecuzione era un tema “di fatto inammissibile”, poiché “tacitamente riservato agli antropologi”.
In effetti, questo studio “s’inseriva nel dialogo tra storia e antropologia che cominciava proprio allora”. Oltre all’evidente debito verso Lucien Febvre, nel retroterra culturale di Ginzburg agiscono infatti gli studi gramsciani sul folklore e le classi subalterne, i lavori di Marc Bloch sulla mentalità medievale, la lezione antropologica di Ernesto De Martino: a differenza dell’ambito di studi tradizionale, qui gli aspetti folkloristici del problema vengono subordinati a un approccio dichiaratamente storico, ponendo in tal modo un’impostazione nuova del problema delle origini popolari della stregoneria.
A degna chiusura dell’opera questa edizione propone, come si è detto, una postfazione, che inquadra diacronicamente I benandanti in ambito storiografico. Rievocando il percorso intellettuale ed emotivo che portò alla sua stesura, Ginzburg inserisce un elemento autobiografico e, in un pervicace “esercizio di autoanalisi”, nella misurazione della distanza che divide il giovane ricercatore di allora con il maturo studioso di oggi, s’interroga sui motivi consci e inconsci che lo condussero a questo studio, sulle scelte di metodo che lo sottendono. Sono riflessioni di grande interesse, che si soffermano su un aspetto spesso ignorato nelle analisi metodologiche: l’elemento freudiano. Un giovane che intenda intraprendere il delicato “mestiere dello storico” avrebbe molto da apprendere da queste considerazioni, poiché qui appare chiaro che l’indagine storica non è mero studio e diligente uso delle fonti, ma emozione e coinvolgimento, costante e vigile messa in questione delle proprie certezze e convinzioni, abitudine a fare i conti con i propri pregiudizi, “disponibilità a reagire nei confronti del caso, dell’inaspettato”, quella “norma che presiede alla ricerca dell’ignoto”, per usare l’espressione di Carlo Dionisotti citata da Ginzburg. La caccia inesausta alla verità storica presuppone insomma un continuo corpo a corpo con se stessi, un integerrimo agire in cui è in gioco la sostanza stessa dell’umano.
Grazie a questo libro, all’interesse che ha suscitato e continua a suscitare, i benandanti, di cui si era persa la memoria, “sono ricomparsi e girano per il mondo”. Sono persino usciti dal loro contesto, fagocitati da quest’era postmoderna che tutto frulla e sobbolle nel suo gigantesco calderone: il loro nome è stato assunto da agriturismi, da complessi rock. È vero, si tratta di “una strana storia”, ma in fondo quella storia appartiene a tutti noi.
Qui l’intervista a Carlo Ginzburg sul mestiere dello storico.