Dedicato sintomaticamente a Emilio Cecchi, I viaggi la morte apparve in origine per Garzanti nel 1958: “un libro composito, che raduna ventiquattro saggi dispersi in rivista, scritti nell’arco di un trentennio”, commenta Mariarosa Bricchi nella nutrita nota al testo dell’edizione Adelphi. La casa editrice milanese prosegue così, a marce sostenute, la ripubblicazione delle opere gaddiane sotto la direzione di Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela. “Modi e registri sono mutevoli – prosegue Bricchi –: si trascorre dalla ragione all’affetto; dall’argomentazione agli squarci autobiografici; dagli interventi sui libri altrui al corpo a corpo con la propria stessa poetica; dall’andamento pianeggiante dei testi nati come conferenze o conversazioni radiofoniche – sempre accesi però dai turni di voce, da ammicchi e guizzi verbali – agli ermetismi del registro riflessivo; dal distendersi dell’ironia al pensoso confronto coi libri della vita: quella biblioteca letteraria, filosofica e tecnico-scientifica che ha contribuito a forgiare l’uomo e lo scrittore. Il movimento ritma dunque la sequenza dei saggi, ma si immette anche all’interno di ognuno, vivificando di volta in volta la cifra dominante con deviazioni, stridori e iridescenze, linguistiche e tematiche”.
Unica raccolta saggistica ad aver visto la luce durante la vita dell’autore, I viaggi la morte è divisa in tre parti: la prima (nove testi complessivi) è dedicata principalmente ad “autobiografie letterarie”; la seconda (tredici articoli) alterna libri “di cui Gadda scrive” a libri “riletti, amati e vitali”; la terza (con due soli contributi, Emilio e Narcisso e L’egoista) “si incarica di ribadire il peso di una delle avventure culturali più influenti nella scrittura di Gadda: l’incontro con la psicoanalisi e la lettura di Freud”. Gli entretiens dell’Ingegnere, stilisticamente ineccepibili, toccano vari argomenti (dal Belli a Rimbaud, da Ensor a Moravia) e sono a ben vedere la radiografia esatta della sua “sindrome” di scrittore: “bracconiere di frodo” e, al contempo, “groppo, o nodo, o groviglio, di rapporti fisici e metafisici”, Carlo Emilio è aduso al linguaggio contorto – alla “tumescenza barocca” – per volontà di sottrarlo alle trappole della mistificante omologazione e far rilucere l’energia “ortoepica” della verità. Ecco perché non può dirsi “scrittore ‘equilibrato’”: in Come lavoro (apparso per la prima volta su “Paragone” nel febbraio del 1950) osserva svevianamente: “La differenza tra il normale e lo anormale è questa qui: questa sola: che il normale non ha coscienza, non ha nemmeno il sospetto metafisico, de’ suoi stati nevrotici o paranevrotici, gli uni su gli altri così mirabilmente agguainati da essersi inturgiditi a bulbo, a cipolla: non ha dunque, né può avere, coscienza veruna del contenuto (fessissimo) delle sue nevrosi: le sue bambinesche certezze lo immunizzano dal mortifero pericolo d’ogni incertezza: da ogni conato d’evasione, da ogni tentazione d’apertura di rapporti con la tenebra, con l’ignoto infinito”. Nelle sue numerose (e sagacemente rumorose) autodichiarazioni poetiche Gadda finisce spesso per inchiodare la “stenta, scolorata, tetra, eguale” lingua dell’uso piccolo-borghese a favore di una langue personale, di un idioletto purificatore e liberante. “La mia penna è al servizio della mia anima, e non è fante o domestica alla signora Cesira e al signor Zebedia, che vogliono suggere dal loro breviario ‘la lingua dell’uso’, del loro uso di pitta-unghie o di fabbricanti di bretelle” (Lingua letteraria e lingua dell’uso, in “La Ruota”, marzo-aprile 1942). Il linguaggio standardizzato ha il segreto desiderio “d’aver tutti inginocchiati al livello della sua zucca”, di livellare le coscienze. E la letteratura fa a bella posta il contrario: disarticola, denormalizza, disarciona, psichicamente dissocia, lasciando allo scrittore e ai lettori la possibilità – etica ed epistemica – di avvolgere nuovi “gnommeri”, inediti labirinti di senso.