La ripubblicazione dei libri di Carla Lonzi da parte della casa editrice La Tartaruga (nuovo corso ne La nave di Teseo, sotto la guida di Claudia Durastanti), iniziata il 5 settembre con Sputiamo su Hegel e altri scritti, è un evento letterario di cui essere profondamente grate e grati. Il volume contiene i primi scritti pubblicati dal collettivo femminista di Rivolta Femminile, fondato da Lonzi insieme all’artista Carla Accardi e alla giornalista Elvira Banotti: lo straordinario, anche da un punto di vista letterario, “Manifesto di Rivolta Femminile” (luglio 1970), il saggio “Sputiamo su Hegel” (estate 1970), due brevi scritti di marzo-luglio 1971, “La donna clitoridea e la donna vaginale “(estate 1971) e un ultimo articolo del gennaio 1972.
Una produzione fulminante, relativa a un arco di tempo molto breve. L’anno prima (1969) Lonzi aveva concluso la sua attività di critica d’arte con Autoritratto: un libro sperimentale composto dal libero montaggio di interviste fatte ad alcuni artisti, in cui si era liberata dal gergo accademico della critica d’arte, scegliendo una scrittura basata sulla soggettività (come denuncia il titolo), sulla partecipazione e non-linearità. Il suo ritiro dall’arte è una resistenza contro l’integrazione nella cultura, che è patriarcale nella sostanza e nella struttura. La continuità tra la sua opera come critica d’arte e quella come femminista è stata ben spiegata da Giovanna Zapperi (Carla Lonzi. Un’arte della vita, 1931-1982, Derive e Approdi 2017). Negli scritti dei primi anni ’70 (“Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile”) rimarca la necessità radicale della non partecipazione della donna alle manifestazioni di cultura che sono una produzione essenzialmente di e per gli uomini: “Noi di Rivolta Femminile ci rifiutiamo di partecipare ai momenti celebrativi della creatività maschile perché abbiamo preso coscienza che nel mondo patriarcale, cioè nel mondo fatto dagli uomini per gli uomini, anche la creatività, che è una pratica liberatoria, viene attuata dagli uomini per gli uomini” e la donna è semplicemente la “controparte neutrale che assiste ai gesti degli altri”. Una spettatrice, dunque, con un ruolo solo ricettivo da esercitare come se ricevesse una grazia. Da qui deriva, già nella sua attività di critica d’arte, il tentativo di ripensare le strutture del sapere e le sue forme di produzione. L’arte è rifiutata perché fondata sul mito patriarcale della personalità eccezionale, una categoria dalla quale la donna è storicamente esclusa. Il rifiuto della donna, il “soggetto imprevisto”, ad accogliere, è una presa di coscienza ma anche un atto creativo.
Nei primi anni ’70 Lonzi acquisisce la consapevolezza che anche gli altri movimenti culturali e i pensieri apparentemente rivoluzionari (la lotta di classe, la rivoluzione marxista, la dialettica servo-padrone) si muovono in dimensioni patriarcali senza metterle in discussione. La donna è “il passato oscuro del mondo” e, come ribadisce nel Manifesto, “ha avuto l’esperienza di vedere ogni giorno distrutto quello che faceva. Consideriamo incompleta una storia che si è costituita sulle tracce non deperibili. Nulla o male è stato tramandato della presenza della donna: sta a noi riscoprirla per sapere la verità”.
Un pensiero fondante della scrittrice è quello della differenza tra uomo e donna. La donna è altro dall’uomo, non deve essere definita in rapporto a lui né gli è complementare (“il mito della complementarietà è stato usato dall’uomo per giustificare il proprio potere”, così come l’uguaglianza tra i sessi è “la veste in cui si maschera oggi l’inferiorità della donna”). Si tratta di progettare un mondo nuovo, invece che inserirsi in un mondo progettato da altri; non partecipare al potere maschile significa mettere in questione il concetto di potere e il sistema di proprietà sul quale esso si fonda, la proprietà del primo oggetto concepito dall’uomo: la donna.
Il contesto principale della inferiorizzazione della donna secondo Lonzi è, da sempre, il campo sessuale. In anni di ferventi discussioni intorno all’aborto e ai contraccettivi, Lonzi assume una posizione laterale, rivoluzionaria e forse poco compresa ancora oggi. Sostiene che la libera sessualità della donna non passa attraverso la liberalizzazione dell’aborto. È necessario, piuttosto, interrogarsi sul tipo di sessualità di cui stiamo parlando, quella che le donne hanno praticato, subito e sperimentato per secoli. La sessualità dell’uomo, le sue modalità di piacere, sono state considerate naturali per entrambi, uomo e donna. L’atto sessuale ufficiale è quello che si conclude con l’orgasmo dell’uomo dentro la vagina della donna. Questa è la norma sessuale, avvallata dalla Chiesa, dalla filosofia, dall’apparente stato di natura. In questo modus il piacere femminile consiste nel far provare piacere all’uomo, nell’essere cioè una “donna vaginale”. Ma la donna, sostiene Lonzi, è essenzialmente “clitoridea”, cioè è dotata di un organo – non collegato alla riproduzione – che le consente di provare piacere anche senza la penetrazione e il coito maschile. L’uomo ha imposto la cultura del pene che impone la passività femminile. La sessualità clitoridea, che per Freud era immatura, è stata sostituita dalla sessualità vaginale, e la donna relegata nel campo del sentimento.
“Vaginale” e “clitoridea” sono, forse, semplificazioni che però rendono il concetto in modo lucido. Rivendicare l’esistenza di “una parte del nostro corpo che ci procura il piacere senza condannarci alla procreazione” è destabilizzante perché porta alla luce la possibilità di una libertà sessuale non coincidente con libero aborto e contraccettivi, ma con lo sviluppo di una sessualità diversa. Un pensiero attuale e luminoso anche in questi tempi dove l’educazione sessuale principalmente sottolinea l’importanza dei contraccettivi (fondamentali per un sesso sicuro) ma poco insegna, a uomini e donne, della possibilità di un piacere non necessariamente da concludersi con il coito maschile nel corpo della donna (che è invece, in ogni epoca, il segno e l’obiettivo della cultura dello stupro). La sessualità dell’uomo patriarcale è forgiata intorno a un modello di virilità che esige la passività femminile e la censura del suo sistema fisiologico di piacere; ma la donna, scrive Lonzi, “vuole carezze, non eroismi” ed “è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante”.
Le conseguenze logiche di questo pensiero sono il rifiuto del matrimonio, l’istituzione che ha ufficializzato la subordinazione della donna; del lavoro domestico non retribuito, la stampella che permette al capitalismo “privato e di stato” di sussistere; della famiglia e della guerra (la superiorità supposta del maschio è la base di ogni bellicosità). Tutti i sistemi filosofici, i movimenti culturali e controculturali in apparenza innovativi (come i “figli dei fiori”), il marxismo, la psicoanalisi di Freud (che arriva a mistificare il desiderio femminile come sofferenza per la mancanza del pene!) non hanno messo in dubbio il dato supposto naturale dell’inferiorità femminile e quindi per la donna non sono attendibili né realmente liberatori.
Chi ha oggi la forza di parlare con altrettanta lucidità e di essere così netta come è stata Carla Lonzi? Appare giusta, quindi, la scelta di riproporre gli scritti senza commenti e accompagnamenti critici, come comparvero cinquanta anni fa: “per la meraviglia di coloro che li leggeranno per la prima volta”, con quella stessa carica non mediata, scrive la curatrice Annarosa Buttarelli. Sono tanto radicali e non stemperati, così perfetti, che è difficile scriverne una recensione che non sia una sequenza di citazioni. C’è in quelle parole per nulla concilianti, calde e determinate, tutto quello che basta per sovvertire gli spazi infelici del proprio vivere. Leggerle, però, fa un po’ paura, perché non si sa, poi, se si saprà sopportare le conseguenze dei gesti e delle parole rinnovate, se si saprà essere all’altezza di quell’universo nuovo senza risposte. Sputare è ritrovarsi fuori dalla storia, in un mondo non raccontato prima. Il lascito conturbante di Lonzi è la piccola o grande paura che ne deriva, elettrizzante e rigeneratrice di senso; il piacere dirompente e sottile di aver perso tutte le cattive compagnie e di dover imparare ad abitare quell’altrove che non esisteva.