Grazie a una coraggiosa riedizione da parte di Utopia, torna nelle librerie Dialoghi in cielo di Can Xue, unica raccolta di racconti in lingua italiana (nella sapiente traduzione di Maria Rita Masci) di una scrittrice in realtà molto importante nel panorama letterario cinese. La scrittura di Can Xue è anzitutto un viaggio nell’interiorità – con le sue contraddizioni, paradossi, parossismi, cambiamenti di umori e situazioni dettati da una apparente illogicità. Questo è un libro senza trama: volutamente la scrittrice la smonta e decostruisce, per lasciare il lettore ramingo attraverso i racconti. Con la trama svanisce la mèta: i finali dei racconti si possono considerare tutto fuorché vere e proprie “conclusioni”, anzi, talvolta il dedalo riporta al punto di partenza, od offre un nuovo inizio. La dimensione dominante è quella del sogno: e come nei sogni regnano l’illogico e l’inconscio, così anche nei racconti saltano i rapporti di causa-effetto, mistificati da un’interpretazione dei fatti del tutto personale che lascia poco spazio all’interpretazione.
L’unica bussola offerta da Can Xue è il linguaggio, testato fino agli estremi limiti per trasmettere percezioni e sensazioni, tra strade che spariscono, echi di terrori e paranoie mal sopite, imperscrutabili interlocutori. “La città è così grande, ma fino a notte è deserta” (p. 57): questo passaggio potrebbe benissimo riassumere anche l’essenza dell’opera, l’animarsi soltanto nel suo momento onirico e crepuscolare. Il sogno in Cina ha peraltro un’antica genealogia letteraria: trecento anni prima della nostra era, Zhuangzi si interrogava se a essere illusorio fosse il sogno o piuttosto la vita cosiddetta vera. Per Can Xue il punto non è tanto svelare l’illusione ma usarla come chiave di lettura per il reale.
Certo, è difficile muoversi in una sequenza di racconti dove fatti e figure passano sempre attraverso un simbolismo che forse resterà per sempre inaccessibile al lettore. È l’autrice stessa a riconoscerlo nell’introduzione, dove rivendica la scrittura di “qualcosa di astratto, di puramente emotivo”, scaturito dal “paradiso interiore” (p. 17). In ciò Can Xue si conferma straordinaria esponente dell’avanguardia letteraria degli anni ’80 (definita anche “modernista”); le va peraltro dato credito di essere rimasta nell’alveo di quella “letteratura pura” (termine molto discutibile), anche laddove altri autori di estrazione avanguardista migravano al neorealismo o altre forme meno astratte sulla spinta dei grandi cambiamenti che stavano sconvolgendo la Cina. Va altresì riconosciuto che la scelta “intimista” di Can Xue non è così immune dall’influenza di fattori esterni: la si può infatti leggere come una reazione estrema alla sottomissione della letteratura a una burocrazia culturale autoritaria e ossificata com’era stato durante la precedente epoca maoista.
Il ritiro di Can Xue nel “dentro” dell’intimo (il nei, categoria fondamentale del pensiero cinese) restituisce però una polifonia dell’individualità che apre diverse direzioni interpretative – e chi si interessa di psicologia avrà buon gioco a interpretare chi o cosa si annidi dietro i misteriosi pronomi con i quali la Nostra interagisce. Unica condizione è lasciarsi traghettare dalle emozioni attraverso acque non meno torbide di quelle dell’inquietante pozzo di uno dei racconti.