Camillo Sbarbaro / Notizie dal primo Novecento

La riscrittura di pagine e pagine, perseguita per tutta l’esistenza di Camillo Sbarbaro (1888-1967), al limite della mania, e la ricerca ossessiva di titoli “umili e denigratori” al servizio dell’unità di sguardo, s’evidenziano in Poesie e prose (Mondadori) secondo un ordine cronologico che mostra il tentativo estremo da parte del poeta e scrittore ligure d’aderire al tempo sussistente.

Imprevedibile Sbarbaro (nei ricordi della sorella Clelia), irrequieto per tutta la vita e definito “estroso fanciullo” da Montale in una famosa poesia di Ossi di seppia, e inteso, per po’ di tempo, come una varietà di maudit tuttavia per niente simile a Des Esseintes. Tanti sarebbero i resti mnemonici sparsi ovunque nelle pagine di poeti e scrittori liguri, riguardanti quel tempo – per molti versi eccezionale – in cui poesia e vita novecentesca s’intrecciarono lungo le due Riviere e migrarono oltre i confini con notevoli forme d’interesse. “Epoca d’oro” la definisce Roberto Galaverni, che di ere letterarie passate e presenti s’intende e fa intendere. Primi decenni del Novecento capaci d’irretire le decadi seguenti: basta scrutare con attenzione la Cronologia inserita in questo Meridiano curato in modo splendido da Giampiero Costa e introdotto da quel rappresentante attuale della lingusticità in poesia che è Enrico Testa. Dopo l’edizione Scheiwiller-Garzanti del 1985 (in forza ai compianti Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller), grande era il bisogno di accedere alle diverse edizioni dell’impareggiabile lavorìo di Sbarbaro alle sue singole opere. Fa parte, infatti, della storiografia personale del poeta, nonché di un certo estetismo della riscrittura portato a estreme conseguenze, la dilettevole attività che consegna alla bibliografia una somma di edizioni di diversa fattura e consistenza. Dal 1914 – anno di Pianissimo – al 1971, anno della pubblicazione “definitiva” delle poesie, in tal modo chiamata da Scheiwiller nella nota editoriale al volumetto, così come voluto da Sbarbaro stesso.


Camillo Sbarbaro, Poesie e prose, Meridiani Mondadori, pp. CLIV+1582, euro 80,00 stampa

La riscrittura di pagine e pagine, perseguita per tutta l’esistenza del poeta, al limite della mania, e la ricerca ossessiva di titoli “umili e denigratori” al servizio dell’unità di sguardo, s’evidenziano nel volume qui presente secondo un ordine cronologico che mostra il tentativo estremo da parte di Sbarbaro d’aderire al tempo sussistente, col rischio talvolta di peggiorare le cose. Se è vero, come è, che diversi lavori sono senz’altro migliori nella loro prima stesura e pubblicazione. Versi e prosa s’intersecano al fine di presentare al lettore e allo studioso l’intero percorso del ricercatore di licheni e muschi (attività non secondaria del nostro) di Spotorno (così lo si pensa, ma era nato a Santa Margherita Ligure, nella Riviera opposta).

Fra gite botaniche e amicizie d’inizio secolo, vagabondaggini e stesura della prima raccolta, Resine (che vorrà sempre espungere dalla propria cronaca bibliografica), con l’intento di attendere più che altro alla prosa, Sbarbaro giunge a Genova nella trappola (così la considera) del lavoro d’ufficio all’Ilva. 1911, 1912, collaborazioni alla Riviera ligure (rivista fondamentale, all’epoca, per molti poeti e critici), amicizia con Pierangelo Baratono, giornalista e poeta non certo di second’ordine nella fauna autoriale della regione. Insomma, un flâneur che emerge dal mito ligure per eccellenza la cui grandezza ha sorvolato quasi tutto il Novecento: pochi se ne sono accorti, pur avendo per Sbarbaro intenzioni benevole e anche attenzioni – è bene ricordarlo – non esenti d’irriguardose scopiazzature. Non sarà difficile documentarsene dando un’occhiata incrociata ai testi di diversi poeti. Così come trovare giovamento dell’insistenza documentaria e critica di Testa nel Meridiano Mondadori, passando magari per le care pagine dedicate al fratello da Clelia Sbarbaro e reperibili nel citato Poesie edito da Scheiwiller.

Sulla fortuna critica di Sbarbaro voci contrastate, spesso maneggiando biografia in modo troppo razionale rispetto al canzoniere, ma sappiamo per certo che Caproni aveva preferenze non poco interessanti per lui a discapito di Montale e che Pasolini si lasciava prendere da quel sconfinante modo d’equilibrare morigeratezza e dissolutezza: in tal senso Sbarbaro è visto come una specie di acrobata nel pieno intermezzo di due guerre novecentesche. A ben vedere, due posizioni che vanno oltre la percezione estetica e orientano grandezze esistenziali da cercare e ritrovare nella significanza di opere proposte e riproposte come varianti di sé stesse, così simili alle geometrie “ripetute” esistenti in natura – i frattali – visibili nei licheni studiati dal poeta-botanico.

Ma la poesia… la poesia s’inoltra nella prosa con atteggiamenti vari, primo fra tutti un sentimento del dolore riservatissimo, talvolta camuffato in ironie sparse qua e là, e corollari a lato di passioni carnali che il poeta non disdegna: dati tempo e luoghi, la visita ai postriboli è quanto di più normale avvenga per uomini più o meno giovani. Non è lì che sta la supposta innocenza a cui si rivolgono quanti insistono sui contrasti tra buio e luce dello scrittore. A versi memorabili si vada, anche nella rete fittissima delle prose dove la variazione espressionista ha la meglio su altri generi allora in voga. Si troveranno commisti a espressioni dialettali e vocaboli non proprio “alti”: Sbarbaro però passeggia in una natura che non ostacola il desiderio umano di godere, al contrario di Leopardi trova nell’aspro quell’ardente sostanza barbara del clima ligure. E che ha sempre influenzato poeti a lui coevi e d’epoca posteriore, ben oltre il tempo in cui Montale pubblicava le sue prime raccolte.

In un recente scritto, Mary B. Tolusso tenta una definizione discreta e ferma dell’elemento umano caratterizzante l’intero percorso poetico di Sbarbaro: ecco rivelarsi Baudelaire, Rimbaud, Valery, “figli della stessa sorte” lei scrive, fuori dalle ascendenze maudit ma in una fedeltà del poeta ai propri sentimenti durata oltre mezzo secolo e che ha influenzato non poco lo stile e spinto a un aggiornamento continuo di pagine e pagine. Secondo i salti esistenziali, la serietà estetica di Sbarbaro esprime l’autonomia dell’arte rispetto alla vita parafrasata da una prosa pressoché razionale. Per questo avvertiamo un Camillo eterno nei dolori e nella “poca gioia”, nei transiti dalla Riviera alla sua Genova sempre cantando la “perduta felicità” di tutti (Versi a Dina, 1931). Quel che di visionario emerge dalle poesie trova sfogo nel tirocinio prosastico fino a spandersi nell’intera opera. Nelle labirintiche pagine di Liquidazione (1928) appare il fantasma di Dino Campana (incontrato realmente a Firenze e Genova), che chiede al poeta chi egli sia dopo essere stato Sbarbaro: un momento d’ironica autocritica che si tinge di drammaticità perché la domanda fuoriesce dalla bocca di un uomo – Campana – sregolato quant’altri mai.

Il Meridiano consegna la flânerie di Sbarbaro nella sua compiutezza: che l’attualità delle lettere ne avesse bisogno dà ragione ai critici che la reclamavano. Immergersi nell’eredità poetica del primo Novecento, a distanza di un secolo, adesca una scrupolosità che si vorrebbe portatrice di grandi Necessità, fuori dagli attuali equivoci della poesia contemporanea non priva di solenni dissipazioni o esibizioni premature. Vero è che l’imprendibilità di Sbarbaro ha più volte scoraggiato una lettura approfondita relegando le sue multiformi opere in ambiti solitari e perfino troppo discreti al limite dell’effimero. Uno spirito del tempo in carne e ossa, non certo irrilevante né isolato, dell’epoca d’oro che si citava all’inizio, e oggi destinato a chi vuole sgravarsi d’esili opprimenti e aprire lo sguardo (educandosi) a quanto la poesia tutta ha maturato e fatto maturare nei primi scampoli del Novecento, con vaste influenze nelle decadi successive.