Se con Le cattive (SUR, 2021) Camila Sosa Villada aveva attirato l’attenzione per la sua scrittura tagliente e incantatrice, in Sono una pazza a volere te dimostra il suo talento affabulatorio anche nella forma breve. La raccolta, pubblicata quest’autunno dalla stessa casa editrice nella traduzione di Giulia Zavagna, contiene nove storie ambientate in epoche, città e contesti diversi, eppure in perfetta continuità tematica ed emotiva con il romanzo d’esordio dell’autrice argentina, come se avessero trovato uno spazio le voci lasciate sullo sfondo nell’opera precedente, gli abitanti nell’ombra del Parco Sarmiento.
Un luogo segnato da segretezza e violenza, e allo stesso tempo da un profondo senso di solidarietà tra le sue frequentatrici, che viene rievocato nel finale del primo racconto, quello d’ispirazione più autobiografica. Sosa Villada mette nero su bianco i genitori, ricostruisce attraverso di loro la fase di cambiamento nella sua vita da trans, quando per un colpo di fortuna ha iniziato a dedicarsi al teatro e ha potuto abbandonare la prostituzione. “Ero malinconica e soffrivo perché ero giovane, carne da disperazione”, annuncia fin dal principio, e si sentono allo stesso modo gli altri protagonisti.
Trans, donne ai margini, bambini – Sosa Villada pone al centro della narrazione i reietti, le vittime del patriarcato. Accusano la brutalità di un sistema sociale condizionato dal bisogno di stabilire con rigore generi e ruoli, ma soprattutto dal mito della virilità maschile, uno stereotipo che danneggia chi lo subisce e poi chi lo insegue, perché rinchiude nella solitudine. Questi negletti riescono a creare una comunità, a fare famiglia, come già accadeva in Le cattive, per affrontare la rabbia e l’indigenza. Non si considerano buoni o cattivi, né ritengono di essere parte della decenza comune; si ritirano in una spiritualità alternativa, lontana dai dettami delle religioni convenzionali, con un suo rosario specifico di gesti e simboli, a tratti dai contorni allucinati.
L’unica certezza, però, resta la carne. Giudicata, descritta nelle sue brutture e sporcizie, nella decadenza portata dagli anni e da ambienti insalubri, eppure inseparabile dallo spirito, l’unica vera compagna nel corso dell’esistenza. I personaggi della scrittrice bramano o detestano il proprio corpo e quello altrui, lo usano per nascondersi o divorarsi; alla fine, comunque, emerge sempre dell’indulgenza verso le sue debolezze, verso la sua umanità. Persino quando finisce per avere fame dell’impossibile, come accade a Billie Holiday nel testo che dà il nome al libro.
“Noi, angeli caduti, messi in ridicolo davanti a tutti.” È il figlio senza madre, sottoposto al brutale trattamento paterno per diventare un vero uomo; è la fidanzata a noleggio per omosessuali non dichiarati; è la ragazzina a cui la nonna spiega perché andare fiere del colore della loro pelle; è Cotita de la Encarnación, accusato di sodomia nel diciassettesimo secolo e imprigionato. Nonostante tutto, non manca la voglia di rivalsa, ogni pagina sprigiona la volontà di lottare per difendersi dall’oppressione.
Nell’epilogo, dopo un atto di persecuzione nasce un universo a sé stante, un rifugio per trans dove si assottiglia la distanza dalla natura e prende piede una nuova religione. Funziona grazie alla prosa di Sosa Villada, che si conferma poetica e insieme schietta, dall’immaginario vivido e deciso. È un canto di dolore e bellezza, di invettiva contro l’odio e di ringraziamento per l’amore e il desiderio. Di rinascita.