Vertigo e Rear Window, pellicole gemelle? Chiederlo a Hitch e a Truffaut fino a ieri poteva apparire enfatico, soltanto funzionale alle solite menti geneticamente modificate dalla celluloide. Ma le persuasioni del “chiaro e scuro”, delle visioni inquisitive non certo indotte da cristalli e acido, questa volta hanno raggiunto – involandosi dallo chignon a spirale di Kim Novak (Madeleine/Carlotta Valdes) – la volontà dialettica di Roberto Calasso: per una volta ha messo insieme scritti composti in vari momenti separati da diversi anni, “anche decenni”. Le Allucinazioni americane irrompono fin dalla copertina, da quel verde dichiarato già presente in gran parte dei fotogrammi della Donna che visse due volte (titolo italiano del film), e che trova nello scialle di seta, indossato da Madeleine durante la cena col marito Elster, la sua manifestazione più chiaramente segnaletica. Verde “pericoloso”, scrive Calasso, visibile con la Jaguar della donna, con le tende dell’albergo e con altrettante situazioni mentali in cui Scottie ex-poliziotto e detective si ritrova e da cui cerca di tenersi ben distante. Ma tant’è il precipizio assume forme varie, quelle di una scaletta casalinga, di una bocca irresistibile, di un ingresso semi-nascosto al negozio di fiori, di un museo e un albergo largamente misteriosi. E le strade di San Francisco, percorse in auto, anch’esse partecipanti alla distorsione visuale e coloristica.
È il misterioso figmentum, per Calasso, l’immagine mentale che il marito di Madeleine, Elster, e Scottie cercano di fermare inutilmente fino a trasformarsi in ossessione e indagine illusoria. Un regno proibito che a pensarci bene invade anche la stanza dove Jeff, più o meno immobilizzato da quanto il racconto e il film (La finestra sul cortile) pretendono, incarna l’etica sessuale del voyeur. Calasso segue l’aura misteriosa della donna calata nei filtri di nebbia durante la visita al cimitero in Vertigo, ma ancor più nella carnale resa prospettica, regalata da Kim Novak a regista e spettatori nelle scene maggiormente celebrate (prima di tutto dallo stesso Hitch) della pellicola.
Affondare nella visione stereoscopica, e involontaria, dei fosfeni è il passo successivo: queste entità che invadono il campo visivo a occhi aperti o chiusi non si da dove vengono, ma secondo l’idea che se ne è fatta Calasso il cinema ne è il luogo elettivo, dove non esiste mai il buio assoluto. Immagini mentali e cinematografiche, dunque, sono figure in una superficie senza confini. Infortuni, forse, che invadono la mente, un trauma intrattabile così come ci espone la sequenza di spirali nei titoli di testa di Vertigo. Capire il vortice è difficile, almeno quanto catalogare gli stati alterati della coscienza che ci giungono dal Paleolitico, così come i fosfeni vengono spiegati da alcuni. Per altri, fenomeni irrilevanti, ma il cinema non lo è affatto, per Calasso e Hitchcock, quando creano e si nutrono della penetrante vivezza di scrittura e immagini.
Come da Vertigo si arrivi a Kafka, alla sua insondabile ossessione per la città e all’intima angustia della propria esistenza, potrebbe non rivelarsi una sorpresa, e invece lo è poiché le strade che giungono a Praga dall’America sono talmente numerose e folli che nessuna major losangelina riuscirebbe a produrle, mentre il pensiero errabondo nell’intrico delle letterature non ha confini e Calasso conosce le affettuose improvvisate mitologiche che ci incastrano: al suo occhio microscopista l’allucinazione e l’iperrealtà del cinema sono ben presenti in Il disperso di Kafka, romanzo che guardava la New York “modernissima” su cui il cielo, guarda caso, non ha confini.