Calabria: gli arbëreshë fra anarchia e municipalismo libertario

Tiziana Barillà, Quelli che spezzano. Gli arbëreshë fra comunalismo e anarchia, Fandango, pp. 224, euro 15,00 stampa, euro 4,99 epub

“Tre calabresi su 100 sono albanesi che cinque secoli fa non hanno smesso di camminare e sono arrivati fin quaggiù”, dove si sono fermati. Se ne deduce che la differenza fra loro e gli attuali immigrati sta solo nel fatto che gli odierni non hanno ancora smesso di camminare.

La popolazione arbëreshë in Calabria conta 60.000 persone distribuite su 33 comuni quasi tutti concentrati nella provincia di Cosenza, fra i quali Spixana/Spezzano Albanese.

Tiziana Barillà, giornalista e saggista, nel suo libro parla proprio di Spezzano e della lunga esperienza di municipalismo libertario che ha fra i protagonisti gli anarchici arbëreshë in un paese governato ininterrottamente dal PCI dalla Resistenza fino agli anni ’90.

Se nella prima parte del libro Barillà racconta le esperienze del circolo anarchico “Pinelli” e dei suoi rapporti burrascosi con il PCI al governo della città, la parte più interessante è sicuramente la seconda in cui l’autrice ricostruisce la costituzione e la storia di un’originale forma di autogoverno, esperienza conosciuta e divenuta famosa forse più all’estero e in Francia che in Italia. Nel 1992 dopo un lungo periodo di commissariamento del Comune, gli anarchici spezzini declinano gli inviti a presentarsi alle elezioni ribaltando l’approccio e chiedendo ai candidati e a tutti di costituire insieme una Federazione municipale di base. In mille firmano (su 7.900 abitanti). Da quel momento secondo le parole di uno dei protagonisti Minikuci/Mincuzzi: “ci sarebbero state da un lato un’amministrazione municipale eletta attraverso le elezioni, dall’altro una federazione di base intenzionata a trattare tutti i problemi comunitari per formulare proposte alternative” completamente autonoma dal Comune e distinta anche dal gruppo anarchico. Un seme di autogoverno, il municipalismo libertario, secondo un modello messo a punto teoricamente da Murray Bookchin ma che si rifà alla lunga tradizione anarchica del doppio organismo, di massa e politico, che risale alla Prima Internazionale, a Bakunin e Malatesta,  passa per le esperienze di autogestione e di organizzazione sociale antiautoritaria durante la Rivoluzione anarchica spagnola nelle prime fasi della guerra civile (1936) e arriva poi in Chiapas con gli Zapatisti, a Exarchia (Atene) e in Rojava (è noto il rapporto politico/teorico intercorso fra fra Abdullah Öcalan e lo stesso Bookchin).

“Struttura autogestita significa l’assenza di organismi direttivi, le decisioni vengono prese tassativamente dall’assemblea di riferimento (di categoria o civica). L’Assemblea generale, poi, discute le decisioni già prese dalle Unioni ed elegge un comitato esecutivo con il solo compito di coordinare ed eseguire le decisioni assembleari”; da allora non ci sarà decisione del Comune riguardante la vita collettiva che non venga vagliata e sottoposta a controproposte in un continuo esercizio di democrazia diretta e apertura di singole vertenze che (la cosa importante) non dipendono dai risultati delle elezioni e degli eventuali cambiamenti della compagine comunale.

Come dice la scritta su un muro di Spezzano: “non sapevano che era impossibile e quindi lo hanno fatto”.

Nel libro Tiziana Barillà torna anche sull’esperienza calabrese più famosa in questi anni, Riace, a cui ha dedicato nel 2017 un libro (Mimì Capatosta. Mimmo Lucano e il modello Riace). L’autrice sostiene che la fine dell’esperienza di Riace è da ricercare proprio nel fatto di aver fatto la scelta opposta di quella di Spezzano entrando nelle istituzioni e cercando di cambiarle dal di dentro. Una trappola: nel momento in cui Mimmo Lucano non ha più potuto presentarsi alle elezioni (perché aveva raggiunto il limite dei 3 mandati) e la sua compagine ha perso, il modello di accoglienza è stato smantellato e “Riace è stato espulso da Riace”. Sulla fine del modello di accoglienza di Riace concorrono molte cause (locali e nazionali a colpi di propaganda razzista, spending review, repressione e debito) ma la critica dell’autrice è molto interessante e si unisce alla sua considerazione che il limite del municipalismo (e di esperienze come Riace ma anche Spezzano) è la solitudine: “il municipalismo in un solo comune ha i limiti del socialismo in un solo paese” se non si coniuga con il confederalismo come nelle esperienze del Chiapas e di Rojava dove l’utopia riesce a diventare concreta.

In ogni caso conclude Minikuci/Mincuzzi: “Immaginate se Spezzano non avesse conosciuto e praticato negli ultimi trentasei anni la prassi degli anarchici e dei libertari. Molto probabilmente oggi la comunità  (…) si sarebbe ritrovata con la fabbrica della morte allo Scalo, con il depuratore devi veleni in contrada Infascinato, con una speculazione edilizia ancor più selvaggia, con la collina di Serralta completamente cementificata”.

La terza parte del libro è dedicata alla storia e al protagonismo degli arbëreshë di Spezzano ripercorsa dal loro arrivo nel ‘500, passando per  l’Unità d’Italia e il brigantaggio postunitario frutto del tradimento della riforma agraria, l’imposizione della leva obbligatoria, lo smantellamento delle industrie borboniche, fino alla Resistenza a cui partecipano con la Brigata Gramsci e al loro impegno nelle file anarchiche e del municipalismo libertario.