Il breve e intenso saggio di Byung-Chul Han (Seoul 1959), da sempre attento alle evoluzioni della contemporaneità, parte da un assunto interessante: la narrazione è in crisi, e nessuna delle varie forme sostitutive l’ha rimpiazzata. Se ad esempio le festività rientrano in quella che Han definisce “espressione di una tonalità emotiva del tempo”, in un’epoca post-narrativa esse diventano spettacolo, merce che (come lo storytelling dei social) fomenta il mercato e l’esigenza di consumare. La società dell’informazione e dei big data, però, intrecciata inestricabilmente al neo-liberismo, manca a questo punto di quell’elemento coesivo che nei secoli ha avuto il racconto, con il suo sguardo lento, la sua astensione dal fornire notizie e commenti: gli elementi che oggi ci saziano di dati inutili e indecidibili.
Ciò che in sostanza manca, riflette Han, è la tensione alla saggezza, la quale nasce da “lato epico della verità”, cioè da narrazioni efficaci. La nostra è un’epoca senza aura, senza lontananza, dominata dai frettolosi like che vengono attribuiti a stories di pura attualità, che quindi non si sedimentano nella coscienza ma si consumano, come le notizie dell’ultima ora, in un presente continuo in cui ciò che sembra contare è l’ipertrofia del sé, lo spettacolo delle proprie minute “esperienze” esposte senza “fantasia narrativa”, le quali non restano che un istante.
La riflessione di Han si sposta verso la psicanalisi (Freud come gestore di una narrazione dogmatica e teleologica) e persino letterario: il romanzo è infatti visto come il primo passo della crisi della narrazione, la quale viene incanalata in strutture, procedimenti, regole – il che, come la televisione e i social, allontana la comprensione della realtà: una argomentazione che però ci sembra forse utilmente provocatoria ma frettolosa. Di contro a queste deviazioni, Han esalta il valore terapeutico della pura nuda narrazione, citando Hannah Arendt, Walter Benjamin e Isak Dinesen: “Ogni pena può essere sopportata se la si narra”. In sostanza, è la tesi finale di Han, mentre la narrazione presuppone e soprattutto crea una comunità, il contemporaneo sta abolendo la comunità perché l’ha soppressa. Siamo imprenditori di noi stessi, dice, condannati a narrare e vendere la (finta) realizzazione di noi stessi.