Vorrei cominciare dalla frase con cui lei conclude questo suo interessantissimo studio: “Il mestiere dello storico può essere, se si fa buona storia, un lavoro pieno di speranza”. Cosa intende per “fare della buona storia”?
Fare della buona storia per me significa non farsi guidare da pregiudizi ideologici, avere sempre lo sguardo sull’insieme, anche se si studia un dettaglio. Sia chiaro, la storia non è solo storia di grandi affreschi, è anche storia di dettagli minimi, ma quanto più il dettaglio che si vuole ricostruire è minimo, tanto più lo storico deve avere la capacità di vederlo senza mai smarrire l’insieme. Ecco, questo significa per me fare della buona storia.
Mi permetta una domanda da profano: ma la storia, joycianamente un incubo da cui non si riesce a uscire, non insegna anche che dall’umano ci sia ben poco di buono da aspettarsi? Da dove nasce la sua “speranza” riguardo al futuro dell’umanità?
Se consideriamo storicamente il percorso umano, dalle sue origini a oggi, vediamo che la tendenza generale è verso un aumento di controllo da parte dell’uomo sulla realtà naturale che lo circonda. Vi è poi anche un altro elemento, non meno importante del primo, un aumento dell’emancipazione dell’umano, cioè della capacità di riconoscere a tutti un eguale diritto a esistere e a svilupparsi secondo il concetto che ognuno elabora di sé. Se consideriamo questi due elementi, controllo (sulla realtà, sulla natura, sul mondo) ed emancipazione (capacità di realizzare se stessi secondo un progetto liberamente formulato), noi vediamo che la tendenza di lungo periodo è verso una dilatazione, un allargamento di entrambi questi dati, e non un restringimento. Questo mi porta a dire che la storia, sul lungo periodo, induce all’ottimismo. Che c’è una freccia di progresso nella storia dell’uomo.
In un passo lei scrive: “La modernità è riuscita sempre a padroneggiare in modo non troppo distruttivo le nuove tecnologie, a fermare le ondate disgregatrici più pericolose, in modo da uscire dal loro inferno”. Non crede che questa mancata autodistruzione sia anche stata frutto del caso? Se, per esempio, in uno dei tanti snodi in cui la storia umana avrebbe potuto prendere tutt’altra piega, la Germania nazista fosse arrivata per prima al nucleare, saremmo ancora qui?
Accetto il discorso della casualità: perché no? Va però osservato che noi siamo il risultato di una serie di casualità che si sono sempre sviluppate a nostro favore. Ora, ciò non ci deve far pensare che esista un disegno intelligente, tuttavia questa serie di casualità a nostro vantaggio è impressionante, e lo storico – se fa della buona storia – ne deve tener conto. Da quando è iniziata la vita su questo pianeta, miliardi di anni fa, ci sono state infinite biforcazioni nelle quali si poteva prendere il ramo che conduceva a non farci mai nascere o a farci estinguere subito. E invece è sempre stato preso il ramo che ci ha portati sin qui. Questa sequenza di casualità vantaggiosa per noi è un dato di cui bisogna tener conto. Detto questo, il problema è la gestione della potenza che abbiamo accumulato, e qui io noto un grave ritardo della politica, rispetto per esempio all’economia o allo sviluppo tecnologico. Per questi ultimi due aspetti vedo che c’è una globalità costituita, dei poteri non politici (economici, finanziari), quindi non democratici, che gestiscono enormi quote delle nostre vite, parti del tutto sottratte al discorso pubblico sulla politica e sull’etica. Questo comporta un rischio gravissimo, che può condurre anche alla distruzione dell’umano. Non è possibile che oggi abbiamo un governo globale dell’economia, della finanza, dei mercati, delle merci e non abbiamo una governance globale della politica, una capacità di governo politico di questa globalità che permea la nostra realtà. Questo ritardo rischia di creare ogni giorno che passa pericoli maggiori.
Riguardo al futuro della nostra specie, alla “sfida” che le si profila davanti, con slancio quasi neopositivistico lei scrive: “Da un certo momento in poi, l’umano sarà ciò che vorremo che sia”. Gli antichi greci avrebbero forse colto in queste parole il mortale peccato della hybris. Davvero non hanno più nulla da insegnarci i miti su cui l’umanità ha edificato la propria cultura?
Io credo che i miti vadano storicizzati, non sono un teorico del valore archetipico del mito, come qualcosa al di fuori del tempo e della storia, di fermo, di fisso, d’immobile che guida qualunque sviluppo e svolgimento della storia umana. Credo invece che i miti, che hanno avuto una grande importanza nella storia del nostro pensiero, sono sempre il riflesso di un mondo, di una cultura, di un ambiente, di una società, di un contesto, e, nei limiti in cui li storicizziamo, possono avere ancora qualcosa da insegnarci e da dirci. Quando parlavano di hybris, quindi dell’invidia degli dei che la hybris provocava, lo phthónos tõn theòn, i greci si riferivano sempre ai singoli: è la smisuratezza del singolo che provoca l’invidia degli dei e quindi il disastro per il singolo medesimo. Noi qui stiamo parlando di specie. Ecco, io non credo che possiamo trasportare questo modello della hybris dal singolo, come lo hanno costruito il mito e la cultura greca, all’intera specie. Non credo che oggi abbia un senso parlare di hybris di specie. Noi oggi siamo quello che siamo, e il problema non è non avere hybris, ma saper gestire con attenzione, con oculatezza, con etica, con politica la potenza che abbiamo raggiunto. Poi, dal punto di vista del singolo individuo – uso questa parola in riferimento ai moderni, per gli antichi non penso avesse molto senso parlare di individualità –, il fatto che il singolo non debba commettere questo peccato di hybris, be’, questo è certamente vero, ognuno di noi deve avere il senso della misura: da questo punto di vista il mito greco conserva la sua attualità.
Lei sostiene che l’acquisizione del progresso tecnico, che accresce “in modo drammatico la potenza della specie”, crea “in astratto la possibilità di tradursi in una maggiore liberazione per tutto l’umano”. Cosa intende per “liberazione”?
Se consideriamo il mondo antico, i protagonisti della storia, gli umani coinvolti nei processi della storia, erano poche migliaia. Di tutto il resto dell’umanità (per quanto ridotta in termini demografici), quanti erano coinvolti nei processi decisionali, o anche, quanti erano in grado di gestire la propria vita oltre al livello di sopravvivenza? Quanti potevano imparare a scrivere, condurre una vita secondo un progetto che non fosse solo quello di non morire? Poche migliaia di persone, élite ristrettissime, che vivevano in poche città, perlopiù costiere. E il resto? Pensiamo ad adesso: sul pianeta siamo sette miliardi, pensiamo a quante persone in qualche modo sono in grado di gestire la propria vita, di avere un progetto: questa non è emancipazione dell’umano? Lo è, e si è moltiplicata in modo esponenziale. E sono state le nostre conoscenze tecnico-scientifiche a permetterci di sviluppare questa potenza. Perché il mondo antico riusciva a dare da mangiare a cinquanta milioni di persone mentre oggi riusciamo a sfamare sette miliardi di persone? Perché abbiamo sviluppato una potenza tecnologica adeguata. E potremmo sfamarne il doppio se usassimo razionalmente, secondo intelligenza, progetto e politica le nostre risorse. Questo dell’alimentazione è un esempio tra i tanti: pensi ai livelli di alfabetizzazione nel mondo, rispetto a quelli del mondo antico.
Nel concetto di “liberazione” prodotto dalla tecnologia e dalla “potenza” conquistata dalla nostra specie rientra anche il superamento del limite estremo, della morte?
Io credo che noi arriveremo nel giro di alcune generazioni a delle forme intermedie – i tedeschi le definiscono Zwischenformen – fra la vita e la morte. Per cui credo che questa idea della morte come dato naturale, immodificabile, si sbiadirà sempre di più, e avremo tutto un lungo periodo di forme appunto intermedie in cui la morte sarà una scelta in qualche misura soggettiva. È una materia delicata, un tema su cui mi piacerebbe riflettere, non l’ho mai fatto abbastanza, ma credo che ci stiamo avviando verso questo punto. D’altra parte, i percorsi intrapresi da un lato dall’ingegneria genetica, e dalle nanotecnologie artificiali dall’altro, convergono verso questo punto. Arriveremo alla possibilità di scaricare il nostro pensiero in un computer, o di costruire una specie di cyborg umano: e dov’è la vita, dov’è la morte in queste forme? C’è e non c’è. Credo che ci avvieremo verso quest’ambiguità, questa zona grigia. Poi, naturalmente, ci saranno problemi di convenienza economica, problemi etici enormi, ma è proprio di queste cose che dobbiamo parlare, altrimenti ci esploderanno tra le mani, creeranno problemi di politica e di democrazia, ci troveremo davanti ad abissi di diseguaglianza – diseguaglianze spaventose di fronte alle quali le vecchie sbiadiscono.
Non crede che la vicenda dell’epidemia sia una micidiale conferma dell’incapacità dell’essere umano di gestire il proprio presente e il proprio futuro?
Ma è proprio per questo che il confronto su questi temi è ormai indifferibile. Noi abbiamo assistito a una cosa incredibile, che pochi commentatori hanno colto con questa crudezza, e cioè la caduta dell’egemonia anglosassone, dei due Paesi che per quasi tre secoli (prima l’uno, poi insieme, poi l’altro) hanno guidato l’occidente. L’Inghilterra e l’America hanno rivelato una caduta di leadership spaventosa, c’è stato un collasso della leadership anglosassone sul pianeta, senza purtroppo che niente la sostituisse, perché certo non lo può fare la Cina, per tante ragioni, e l’Europa si è rivelata l’impotenza che sappiamo. Questo ha creato un vuoto enorme. Torno a dire, se noi confrontiamo questa caduta verticale della politica con l’aumento di potenza tecnologica, con la disponibilità enorme di risorse finanziarie – mai nella storia l’umanità ha avuto tante risorse a disposizione, tecniche, finanziarie, economiche, produttive –, allora questo accumulo spaventoso di potenza, risorse, di mezzi, di sapere, di conoscenze di forze produttive rispetto alla caduta verticale della politica crea enormi scompensi, crea rischi enormi. Il problema è aprire discorsi pubblici su questo, cercare di spingere la politica e la riflessione etica, quindi la democrazia, a misurarsi su questi temi. Se la politica non comincia a parlare di questo, di cosa mai deve parlare?
Nel “contrappunto” fra antichità greco-romana e modernità portato alla luce nel suo libro, lei si sofferma sulla conquista moderna del superamento della schiavitù, nell’antichità considerata come “naturale”, e lega questa conquista all’organizzazione capitalistica, che avrebbe offerto “un’alternativa economicamente vincente all’utilizzazione del lavoro schiavistico”. Riguardo ai modi del sistema capitalistico (classico o l’attuale iperliberista), più che di superamento della schiavitù non si dovrebbe parlare di una sua subdola mutazione, della messa a punto di una sua forma aggiornata?
Certo, il capitalismo crea forme aberranti di sfruttamento, ma la schiavitù antica era un’altra cosa. C’è una grandissima diversità rispetto al mondo antico: quando oggi si creano queste forme aberranti di sfruttamento, si sa di commettere un’ingiustizia, si sa che ci sono alternative. Nel mondo antico non era così. Insisto sempre su questo punto quando si fanno confronti con l’antico, quando si sostiene che oggi si rinnova la schiavitù: non è vero. Oggi esistono altre forme di sfruttamento, che possono essere anche peggiori: il problema non è l’intensità del dolore provocato, è la qualità storica che è diversa. Ecco, questo vuol dire fare della buona storia, non confondere: la schiavitù antica è un’altra cosa, essa era considerata come dato naturalistico, un mondo senza schiavi era inconcepibile. Ed era così: per consentire a quelle élite di pensare, di studiare, di scrivere, di fare grande letteratura, grande filosofia, era necessaria una società costruita sul lavoro di chi non faceva altro che lavorare e non era nemmeno padrone del proprio corpo. Nel mondo moderno, quando si producono forme di sfruttamento, anche peggiori di quelle, si costruiscono su un’altra base economica, giuridica, politica, etica: è un’altra cosa.
Tornando al binomio liberazione-tecnologia, in molte realtà sociali e politiche del mondo assistiamo da parte dei vari poteri ad un uso strumentale della tecnologia, impiegata per controllare, indirizzare, asservire e reprimere, più che liberare i cittadini. Su quale fondamento poggia la sua visione della forza liberatrice della tecnologia?
Ripartiamo dal discorso della schiavitù. Certo, oggi riproduciamo forme di sfruttamento, anche aberranti, ma in segmenti molto limitati, e con grande disapprovazione dell’opinione pubblica, mentre nell’antichità un mondo senza schiavi era impensabile. E Perché? Perché è avanzata l’etica? Perché Rawls è superiore ad Aristotele? Niente affatto, è accaduto perché sono mutate le condizioni materiali, per cui oggi tutti noi riteniamo che ci debba essere un mondo senza schiavi, di nessun tipo, di nessuna specie. E pensi all’emancipazione femminile. Aristotele scriveva che la donna è per natura inferiore all’uomo e doveva ubbidirgli: cos’era, Aristotele, una bestia, un uomo senza senso morale? No, rifletteva su un dato elaborato e che per lui era immodificabile. E per quali ragioni? Per la povertà tecnologica del mondo antico, per il quale era impensabile che non ci fosse una parte dell’umano subalterna ad un’altra, che viveva e pensava sulle braccia e sulle spalle di chi era invece sottoposto. Questa emancipazione è dovuta alla tecnica. Con questo non voglio dire che la tecnica è di per sé benigna. La tecnica dà potenza, il problema è come la si usa, questa potenza, e queste scelte dipendono da altri ordini di discorsi. La tecnica è potenza, ed è in qualche modo neutra: la posso usare per creare la più perfetta delle società immaginabili e la posso usare per lo sterminio. Comunque, la tecnica ha una straordinaria carica di emancipazione, in questo risiede la sua forza liberatrice.
Dunque, per lei sono le conquiste tecnologiche a trainare e trasformare l’etica?
Non c’è dubbio. Vede, le conquiste tecnologiche non stabiliscono una determinata etica, ma creano le possibilità di un’etica. Esse di per sé non impongono un’etica, ma creano le possibilità di avere un’etica. Con esse posso, per dire, costruire un’etica della Rivoluzione francese, o un’etica della sopraffazione, del nazismo. Comunque, è la tecnica che consente questa possibilità. Il problema, ripeto, è la caduta verticale della politica rispetto all’aumento di potenza tecnologica.
In un passo molto incisivo lei auspica il “distendersi oggettivo dell’umano […] come a un’unica e totalizzante soggettività – la soggettività globale della specie, che non dice ‘Io’, ma parla solo in terza persona”. Assumendo la prospettiva di una delle manifestazioni tipiche dell’umano, la creatività artistica, questo superamento dell’individualità non ne determinerebbe la fine, legata com’è essa alla soggettività?
Mi permetto di citare un mio libro, Eguaglianza (Einaudi, 2019), nel quale approfondisco questo punto. Lì propugno una cultura dell’impersonale, un’eguaglianza fondata sull’impersonale e non sull’individuale. La ritengo una grande prospettiva etica per l’umano, assumere cioè come soggetto non i singoli, non gli individui, non la forma dell’individuale, ma la forma dell’impersonale: né “io” né “noi”, ma “egli”, l’impersonalità della specie. Credo che sia una grande chiave del nostro futuro.
Riguardo all’arte lei ha perfettamente ragione, ma io non credo che l’impersonale debba completamente sostituire l’individuale, credo che lo debba affiancare. Dalla modernità, l’individuale, l’io, è stato l’unico modo in cui pensiamo all’umano, che veniva considerato come la somma degli individui: si passa dall’“io” al “noi”. Ecco, io credo che accanto a questo modo – che ha la sua validità: appunto, lei cita l’arte –, accanto all’individuale esistono altre forme, altri modi storici di considerare l’umano, e io credo che una molto importante e fruttuosa sia quella dell’impersonale. Dobbiamo poi stare attenti: l’individuale è una concezione figlia della modernità, nel mondo antico gli individui non esistevano, non v’è nemmeno la parola, “individuo” è una parola moderna, non esiste né in greco né in latino. Quando Aristotele vuol significare quello che noi traduciamo con “individuo”, dice “ciascuno di noi”, “ekastos emon”, e anche i romani, quando vogliono dire individuo, dicono “singulus”, il singolo, ma individuo nel significato filosofico, letterario che noi gli diamo è una costruzione moderna, sviluppatasi dal Rinascimento ad oggi. Quindi dobbiamo sempre abituarci a storicizzare, a fare della buona storia. La forma individuale dell’umano non è una forma eterna, sempre esistita: è una forma straordinariamente ricca e produttiva di risultati tipica della modernità. Io credo sia venuto il momento di affiancarle un’altra forma di concezione dell’umano, appunto, l’impersonale.