Bruno Galluccio / La poesia nel nostro bizzarro mondo

Bruno Galluccio, Camera sul vuoto, Einaudi, pp. 136, euro 12,00 stampa, euro 6,99 epub

I sistemi, spaziali e telecomunicativi, sono l’informazione che sta dentro l’informazione della realtà di cui facciamo parte, mente e poesia comprese. Se un poeta chiama in causa quest’argomento, dentro la tellurica forma data ai propri versi, e lo fa agendo da fisico nel pieno dei principi scientifici, accade qualcosa di inedito. E di sorprendente, aggiungiamo.

Perché se Camera nel vuoto si avvia in spiegazioni felicemente chiare e affabili di problemi quantici per lo più oscuri anche agli studiosi (ma perché la realtà è tanto complicata? Non saremo noi umani a essere dispersi nella nostra complicazione originaria?), è vero che nel libro si trova una (non poca) lirica che sembra il precipitato notevolmente attuale, e giunto da chissà dove, di quel Paul Celan in lotta: nel secolo scorso, contro la lingua degli assassini che pur egli usò dopo la frenetica (e tormentata) stagione romena. Ma Bruno Galluccio, che conosce bene questa storia, si addentra dentro le origini dei drammi, e della materia idiomatica a cui bisogna sempre rivolgersi se si spera di ottenere qualcosa di valore inequivocabile nella contemporaneità. La poesia origina dal nulla così come l’universo da disequilibri casuali, e chissà quante volte è accaduto senza che le fluttuazioni generassero una specie che potesse averne “coscienza” dopo quell’inizio “che non è un inizio / perché non esisteva un prima”.

Dopo la creazione dello spazio-tempo avviene un fatto strano, avviene che un poeta ritrovi l’essere umano capace di mettersi al centro del linguaggio, prima vitale e poi poetico: la lingua sa d’avere potere nell’inattesa concatenazione di cellule del nostro cervello. D’altronde la poesia appare come fatto empirico che può mandare a quel paese uomini e donne, eppure essa sta, sempre, al centro di tutto. Galluccio, e l’amato Celan, compresi. Fatti indiscussi, concreti, probabile metafora dell’universo in questa parte diciamo così “visibile”, dov’è impossibile sapere quanto durature siano le leggi fisiche. Il bisogno estetico della mente umana ha creato la forza primordiale della poesia, un affaire a cui prima e dopo Dante proprio nessuno ha saputo risolverne compiutamente condizione e ragione ultima.

L’apparente non senso del passaggio umano si delinea sempre più attraversando le sezioni di Camera sul vuoto, camera in cui abita e ci fa abitare il poeta di Napoli, fin dall’esordio con Verticali (del 2009). Ma sono le interazioni fra il mondo a noi conosciuto e il tempo da noi inventato che ci spingono verso l’indecifrabilità, dagli interi corpi alle cellule che trasferiscono l’informazione per renderci vivi, coscienti d’esistere. Dunque molti versi del libro diventano esegeti della materia lungo le sue linee evolutive. Voci e giorni dell’umana esistenza si fanno sottili nella disponibilità del poeta a determinarsi e tradurre la consueta vanità della parola. L’integrazione tra fisica e lirica è l’inedita lode verso una lingua che strappa gli esili (compreso quello di Celan) e riesce a mostrare la luce nelle tenebre. L’universo violento non può imitarsi, ma in quest’angolo di spazio-tempo c’è una temperanza che osserva benevola le migliori equazioni (“semplici e necessarie”: Paul Dirac) della nostra generazione, in attesa di nuove, da risolvere figurando altra poesia. Quel che si può avverare nella lingua è già qui, nella ricerca di Galluccio. In questa nostra strana epoca, la sua poesia serve per tentare di capire, almeno un po’, come sia fatto il nostro bizzarro mondo.