Bruce Levine / U.S.A. – Nel fumo delle battaglie

Bruce Levine, La guerra civile americana. Una nuova storia, tr. di Cristina Spinoglio, Einaudi, pp. 424, euro 27,00 stampa

Sono relativamente pochi i testi in italiano dedicati a quell’evento della storia americana che noi europei chiamiamo Guerra di Secessione e gli statunitensi Civil War. Il principale studio pubblicato nel nostro paese è stato finora il massiccio tomo di Raimondo Luraghi, Storia della guerra civile americana (Einaudi, 1966 e poi ristampato più volte), ottimo testo ben documentato sul piano politico e militare oltre che di lettura assai piacevole, con forse l’unico limite di una troppo accesa simpatia da parte dell’autore per il fronte confederato, con una visione eccessivamente romantica della società del Sud che lo porta a una interpretazione dei fatti quasi del tutto impermeabile alla retorica del mito antischiavista. L’esatto contrario del testo da poco tradotto da Einaudi, dovuto allo storico statunitense Bruce Levine che invece proprio sulla dialettica schiavismo/abolizionismo centra tutto il focus della sua ricostruzione.

Nell’introduzione al volume, con una suggestiva immagine, lo studioso americano paragona The House of Dixie, il raffinato mondo dei latifondisti proprietari di schiavi degli stati sudisti, alla House of Usher di Edgar Allan Poe, una società basata sull’ingiustizia dello schiavismo e attraversata già da decenni al suo interno da crepe e fratture sempre più profonde che la guerra civile allargherà, fino a sgretolare l’intero edificio. Il conflitto di classe non si limita a quello fra bianchi e neri, schiavisti e schiavi, ma investe anche altre categorie sociali contenute all’interno di quelle più evidenti e riconoscibili: conflitti, ad esempio, fra grandi proprietari terrieri con decine di schiavi al loro servizio e piccoli coltivatori bianchi con pochi o del tutto senza schiavi o, all’interno della comunità nera, quello tra gli schiavi e le non molto numerose famiglie di colore libere, in cerca di una difficile integrazione nella società razzista dei bianchi e pertanto, spesso, più realiste del re.

La società nordista non è meno pervasa da contraddizioni: all’inizio del conflitto si pensa addirittura sia giusto restituire gli schiavi fuggiaschi ai legittimi proprietari e se questa assurda disposizione non verrà applicata spesso, sarà solo per non concedere vantaggi al nemico e non per spirito di umanità verso gli oppressi; non meno razzisti dei sudisti, anche gli Yankees, Abe Lincoln per primo, si rifiuteranno di inquadrare i neri nell’esercito e armarli fino al 1863, e il Proclama di Emancipazione, avversato oltre che dai confederati anche dai nordisti conservatori, verrà emanato obtorto collo e solo per necessità militari. Perfino Marx ed Engels dall’Europa, quasi litigarono in proposito, come riporta Levine: Engels si disse disgustato dal comportamento unionista fino alla primavera del 1862, mentre Marx definì il Proclama di Emancipazione, “il documento più importante nella storia americana da quando si era formata l’Unione”.

Sostanzialmente, precisa Levine – un dato che raramente Luraghi prende in considerazione – la Secessione e la guerra sono questioni volute e gestite dalle élite economiche degli stati sudisti, il presidente della Confederazione Jefferson Davis fra i primi, e non necessariamente dalla maggioranza degli abitanti bianchi, spesso poveri o comunque non proprietari di schiavi, degli stati schiavisti. Come spiega Levine: “il ‘padrone’ tipico possedeva da quattro a sei schiavi. Il fatto di possedere schiavi permetteva una prosperità maggiore di quella di qualsiasi agricoltore medio degli Stati del Sud, ma sensibilmente minore di coloro che avevano a disposizione almeno venti schiavi […] la vera e propria aristocrazia terriera era costituita da diecimila famiglie circa, che possedevano cinquanta e più schiavi ciascuna”. Erano loro a dare forma al governo e tono alla società: il presidente Jefferson Davis – proprietario di 1800 acri a cotone e di 113 schiavi –; il generale in capo dell’esercito delle “giacche grigie”, Robert E. Lee – proprietario di tre tenute ad Arlington, Virginia, e di sessanta schiavi; il reverendo Charles Colckock Jones, predicatore di un cristianesimo schiavista – 129 schiavi e tre piantagioni nella contea di Liberty in Georgia; Robert Toombs, primo segretario di stato della Confederazione – 176 schiavi e 2200 acri di terra in tre diverse contee; il fratello di Davis, Joseph, e così via, fino al culmine massimo di Thomas P. Devereux della Carolina del Nord con 1000 schiavi e James Hamilton Couper della Georgia con 1500 schiavi. Una guerra quindi votata solo al mantenimento dei privilegi di una ristretta oligarchia che prosperava sulla pelle di decine di migliaia di schiavi neri e alle spalle di altrettanti piccolo-borghesi bianchi sulla soglia dell’indigenza. Magioni neoclassiche in stile Via col vento, con eleganti giardini e sontuose scalinate, feste, ricevimenti e serate danzanti, battute di caccia, regate, corse di cavalli (con schiavi neri utilizzati come rematori e fantini): un mondo dorato di lussi ed agi che concedeva ai rampolli di certe famiglie la migliore educazione con precettori privati e scuole esclusive per fanciulle, college in Europa e conseguente Grand Tour nel Vecchio Mondo, mentre i cittadini meno abbienti degli stati meridionali dell’Unione continuavano ad accontentarsi del sistema scolastico meno evoluto della nazione (e ovviamente agli schiavi era vietato imparare a leggere e scrivere).

Il potere di questa élite, non solo nei propri singoli stati ma in tutto il complesso degli Stati Uniti, puntualizza Levine, era sempre stato enorme: fin dalla Rivoluzione tutti gli occupanti della Casa Bianca, infatti, erano stati o proprietari di schiavi (Washington, Jefferson, Monroe, Jackson, Tyler, Polk, Taylor) o loro alleati e consiglieri, e le stesse categorie umane e sociali controllavano il Congresso e la Corte Suprema. La lotta di Lincoln diventava pertanto, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, una esigenza generalizzata di maggiore equilibrio e democratizzazione.

La guerra che produsse radicali cambiamenti a questo stato di cose – conclude Levine – è stata “utile, necessaria e persino gloriosa”. La seconda rivoluzione americana, però, vide molte delle sue conquiste, dopo l’attentato a Lincoln, andare in pezzi con il risorgere di una élite sudista che impose di nuovo la supremazia bianca e una tirannica disciplina del lavoro che privava gli ex schiavi liberati di gran parte dei loro diritti civili e politici: già dagli anni ’90 del secolo si affermò la segregazione e l’apartheid con il sistema “Jim Crow” che sarebbe durato fino ad oltre la metà del secolo successivo. I neri del Sud però, “dopo la Ricostruzione furono obbligati a fare marcia indietro verso lo schiavismo, ma non ritornarono mai più nello schiavismo”.