Mi sono portata Le schegge in America. Ho cominciato a leggerlo su un volo Lufthansa, nel lungo tragitto che mi portava in Colorado. E l’ho finito nelle serate on the road verso est. A Los Angeles arriverò a fine viaggio, sicuramente con altre letture. Ma di sicuro quando ci arriverò cercherò quei colori, quei suoni, quelle immagini che popolano il romanzo, sapendo che non potrò trovare molto di più dei nomi delle strade e dei quartieri. Perché Le schegge è ambientato negli anni 80, in una Los Angeles molto diversa da quella di oggi. È la stessa Los Angeles di Less than zero, il romanzo che ha consacrato Bret Easton Ellis (BEE come lo chiamano qui) e che per molti di noi è stato una folgore, una rivelazione, un turning point. Quella Los Angeles straricca e infelice degli adolescenti che vanno a scuola in BMW o Mercedes, che vanno in una scuola privata stracostosa ed esclusiva; che vivono nelle ville sulle colline o nei canyon, con la piscina e la Jacuzzi e una certa quantità di servitù; che hanno una stanza grande come una delle nostre case, con l’ingresso indipendente, e qualche volta addirittura una dependance separata dal resto della casa; che prendono un Valium per sentirsi a proprio agio e un Quaalude per non vedere le difficoltà e del fumo e della coca per divertirsi.
Bret, il narratore che forse è BEE o forse fa finta di esserlo, ha diciassette anni, vuole diventare uno scrittore, e ci spezza il cuore fin dalle prime pagine quando parla di casa sua come “la casa vuota sulla Mulholland”. Chi non se la ricorda, la Mulholland drive del mitico David Lynch. Ma ogni volta che Bret nomina casa sua, e ha modo di farlo ovviamente molte volte, in un racconto che è preciso e dettagliato come il report di un poliziotto, in un racconto che è di un adolescente e che ha quindi un gran va e vieni da casa, dunque ogni volta che Bret nomina casa sua, scrive “la casa vuota sulla Mulholland”.
I genitori di Bret sono in viaggio in Europa da più di un mese, quando noi lo incontriamo, e non si sa quando torneranno. C’è una domestica che mette in ordine, prepara del cibo che lascia in frigo, pulisce. Ma la casa è vuota. E quel vuoto è parte fondante della storia. Che è semplice e allucinante. Alla Buckley, la scuola privata ed esclusiva di cui Bret frequenta l’ultimo anno, arriva un nuovo studente, Robert Mallory. È molto bello ma ha un passato oscuro. È seducente e fa un po’ paura. Scompagina gli equilibri, le amicizie e le coppie consolidate. Bret lo desidera e lo detesta, percepisce in lui dei disturbi psicologici a cui non sa dare un nome ma che alimentano la sua fantasia. In quello stesso periodo a Los Angeles un serial killer che va sotto il nome di Pescatore a strascico sta martirizzando delle ragazze, facendone prima scomparire gli animali domestici e poi lasciandone in bella vista i cadaveri mutilati e ricomposti con gusto macabro e tetro.
Bret sta scrivendo il suo primo romanzo, sta sperimentando la sua omosessualità ma in segreto, ha una fidanzata ed è morbosamente attratto dal serial killer, dagli indizi che lascia, dalla narrazione che sembra voler imporre. Abbandonato a se stesso come i suoi compagni, prigioniero del proprio mondo interiore e della propria immaginazione, scollegato dal mondo reale, Bret si lascia andare a una lettura della realtà che non cerca fatti, dati o altri appigli, ma ricostruisce in libertà i pochi elementi che quella realtà offre. Finché immaginazione e realtà finiscono per essere così confuse da non poterle distinguere l’una dall’altra. Quaalude, Valium, erba e altre droghe ovviamente aiutano la mescolanza. E il vuoto. Il vuoto in cui gli attori di questo romanzo sembrano muoversi. Un vuoto apparentemente pieno e pure lucido, patinato, lustro. Il vuoto dell’adolescenza, il vuoto “naturale” del passaggio dal pieno dell’infanzia a quello dell’adultità. Il vuoto del turbocapitalismo, della cultura edonista (anche da noi gli anni 80 erano quelli dell’edonismo reaganiano), dell’eccesso di scelta, dell’eccesso di consumo. Il vuoto della frammentazione, è arrivata MTV, un video dietro l’altro, un video che è sorretto da e sostiene una musica, non importa che abbia un inizio e una fine. E il vuoto dell’assenza: degli adulti, dei genitori, dell’affetto, della presenza, dell’esempio, della guida. Adulti assenti, case vuote, vite fluttuanti. Anche il sesso, che è acerbo e crudo, eccessivo e tentativo, sperimentale e spesso goduto solo tecnicamente, anche il sesso alla fine è vuoto. Felicità e amore sono assenti, così assenti che è difficile sentirne la mancanza.
La precisione con cui questa lettura ci tiene attaccati al luogo (ogni strada di Los Angeles è presentata e descritta con minuzia topografica), al tempo (i riferimenti ai vestiti, agli occhiali, ai film sono esatti e maniacali), alla musica (le canzoni sono tutte citate con il titolo, il nome della band e spesso alcune delle liriche), non impedisce alla tensione della storia di crescere costantemente.
Ma “It means nothing to me” è il vero refrain del racconto. Che potrebbe essere il ritratto di una generazione, e forse anche lo è. Ma io ci ho visto soprattutto la difficoltà di leggere la realtà intorno a noi, di tenere a bada quello che la nostra immaginazione aggiunge alla realtà quando ci mancano i dati e le informazioni. La difficoltà di osservare la realtà, che forse è vero è diventata troppo complicata ma forse anche no, forse la realtà è sempre stata complicata e ci siamo impigriti e non ci sforziamo di guardare. Nello scarto tra realtà e immaginazione è facile inciampare, è facile farsi male. Di un male che è un po’ fuori e un po’ dentro di noi. Dice il protagonista Bret, nella premessa del romanzo in cui racconta quante volte ha cercato di scrivere questo libro e quante volte non ce l’ha fatta, dice di non essere mai riuscito a riprendersi del tutto dal trauma di quella adolescenza. E gli si può credere, perché nessuno si riprende davvero da un trauma. Il prima e il dopo restano a definire la vita. Siamo però creature resilienti e adattabili, e possiamo continuare a vivere. Soprattutto possiamo continuare a raccontare. A esercitare quella possibilità di consolazione, quel gesto di dimenticare mentre affidiamo ad altri la nostra memoria. Non è altro che letteratura. La buona letteratura (senza dimenticare la straordinaria traduzione di Culicchia) che con BEE abbiamo ritrovato con piacere e riconoscenza.