Siamo un ammasso di frammenti in movimento – di chi siamo stati e di chi siamo oggi, di chi avremmo potuto diventare. Il mosaico di narrazioni composto da Brandon Taylor ne Gli ultimi americani, restituisce il ritratto struggente e spietato non tanto di un singolo Paese, quanto di una società ridotta a brandelli da ipocrisie e disillusioni. Sotto la lente d’ingrandimento, la generazione sulla soglia dell’età adulta, gli ultimi ancora in bilico tra i progetti della giovinezza e le contingenze della maturità. Ultimi anche perché ai margini, per ragioni economiche, culturali oppure professionali. Troviamo un poeta in erba impiegato nella cucina di un ospizio, un ex ballerino costretto a svendere il proprio corpo per guadagnare soldi, artisti dall’avvenire incerto. Il romanzo è suddiviso in nove capitoli che funzionano come veri e propri racconti indipendenti e hanno al centro uno dei personaggi. L’intreccio intraprende gradualmente una direzione unica, svelando la ragnatela di rapporti sentimentali, amicali e sessuali grazie a una prosa densa, capace di seguire le complessità delle varie voci e comunque rimanere coesa. La scrittura fa un uso sapiente anche della lingua, tra la crudezza di certe immagini e il lirismo sommesso nella descrizione di gesti banali, tramite cui riflettere sull’abisso dell’umanità.
Perché i protagonisti finiscono per avvertire, in fasi differenti del loro percorso, la mancanza di senso e scopo del nostro esistere. È un’inquietudine che prende le sembianze più svariate, ma viene condivisa indipendentemente da provenienza e storia familiare, colore della pelle e carriera, genere e orientamento sessuale. Si manifesta nell’alienazione in ambito lavorativo, dove sono spesso necessari compromessi e meccanicità, ma anche nella violenza sempre più tangibile nella fitta rete di gerarchie relazionali. Risulta impellente, allora, il bisogno di essere visti, sebbene non sia mai possibile comunicare in modo genuino ed efficace: “Così continuarono a sorridere, e poi si misero a ridere, seduti nel tavolino all’angolo, mentre fuori pioveva e il caffè si faceva più rumoroso e poi caldo e poi vuoto, e il mondo intero, l’intera sequenza degli eventi, marciava senza prestare la minima attenzione o cura al fatto che lì, in quella minuscola, ignota particella dell’universo, i cuori di due persone si stavano spezzando, ancora e ancora”.
Intorno a loro, il grigiore di Iowa City, dal profilo via via più irriconoscibile, in un presente condizionato dall’ansia per il futuro del pianeta e da crisi sociali ed economiche. Ognuno partecipa a modo suo ai grandi dibattiti di questa epoca assumendo posture estetiche, filosofiche o politiche, però si sente sommergere dal malessere collettivo, nella consapevolezza di aver ereditato questa realtà e di lasciarla a sua volta in eredità: “Capiva, adesso, quanto la sua domanda fosse stata crudele e insieme semplice, allo stesso tempo: perché la gente vive in questa maniera? La risposta era: perché non ha scelta”.
L’arte non riesce a essere fino in fondo un mezzo di espressione, figurarsi di salvezza. Si tenta di creare un ponte tra individui attraverso il contatto carnale, eppure anche qui emerge l’impotenza: l’atto sessuale è perlopiù mera funzione fisica, non strumento di cura per la solitudine, tranne in rare, preziose eccezioni. E sono proprio questi momenti flebili quanto inaspettati, piccoli gesti nelle coreografie del quotidiano, a far sopravvivere la speranza di conservare un briciolo di misericordia, di arrivare anche solo un istante a elevarsi dalla miseria comune. Come nel finale corale: ragazze e ragazzi partono per un’avventura prima di separarsi e cominciare una vita nuova, e nonostante equivoci, discussioni e silenzi aleggia nell’aria la felicità.