Borges e l’eternità

In questo periodo in cui si celebrano i 700 anni dalla morte di Dante, non potevamo trascurare l’enorme influsso che la Divina Commedia ha avuto sull’opera di Borges. Borges lesse Dante in una edizione con testo a fronte in inglese e in italiano, e alla fine della Commedia si accorse che aveva imparato l’italiano. “Se mi dicessero di salvare un solo libro, salverei la Commedia”, ha detto in una intervista. L’intuizione geniale di Dante, ripresa da Borges, è quella di intendere la Teologia come un genere della letteratura fantastica.

Soltanto un grande scrittore come Borges poteva imbarcarsi nella grande impresa di scrivere niente meno che la Storia dell’eternità, che poi sarebbe in definitiva – a ben guardare – la storia dal punto di vista dei libri, il tentativo di trasformare l’intera realtà e l’intero universo in un libro, come scrisse Stephane Mallarmé, che confessò in una sua poesia di aver letto tutti i libri, e come Dante Alighieri nel famoso verso del Paradiso in cui descrive la rivelazione dell’Universo che “si squaderna”. Per Borges il tempo è finzione, la realtà stessa è finzione. Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro. La verità del mondo, dell’Universo, va ricercata nei libri. Anche nelle opere di Galileo Galilei abbonda il concetto dell’Universo come libro. Grandi sono le meraviglie dell’Universo, dice Galileo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del Mondo (1632), ma l’invenzione più straordinaria di tutti i tempi è stata quella serie di segni – la scrittura – tramite i quali noi riusciamo a spiegare e a comunicare agli altri le leggi della fisica, il funzionamento dell’Universo. Eppure come fa un libro a contenere l’Universo, come fa la Storia a comprendere l’Eternità, come può un oggetto finito – oppure un periodo di tempo finito – comprendere l’infinito? Borges in questo libro ci dimostra, con una serie di argomentazioni e con una serie di dottissimi riferimenti bibliografici, che l’eternità è il modello e l’archetipo del tempo, un problema che ha assillato per secoli la Metafisica occidentale, e che è ancora oggi forse il problema più impellente per la fisica post-quantistica.

Che cosa è eterno in questo libro? Proprio l’amore per i libri, la ricerca incessante del racconto perfetto, che si chiuda in un cerchio nella sua argomentazione, nella ricerca di quel libro supremo che possa spiegare l’Universo. Per raggiungere questo scopo Borges ha cercato per tutta la sua vita di leggere il più possibile, affinché da tutte queste storie, da tutti questi racconti, si potesse ricavare il racconto perfetto, un racconto nella cui trama si potesse trovare racchiusa l’intera realtà. Ecco perché fin dall’edizione del 1936, Borges volle includere in questo suo libro anche un racconto, che è considerato uno dei suoi più belli, uno dei più perfetti. Il racconto che è stato incluso fin dalle prime edizioni in questa Storia dell’eternità – a detta di tutti i critici e di tutti i lettori di Borges – è uno dei migliori di Borges in assoluto: La ricerca di Almotasim, del 1935, a volte tradotto con un titolo più ambiguo ma proprio per questo più affascinante, come L’accostamento ad Almotasim. La ricerca di Almotasim si basa proprio su questo, sul tentativo di scrivere la recensione di un libro inesistente, opera di uno scrittore inesistente, un libro che dimostri la tesi di fondo di Borges, che ogni uomo è tutti gli uomini, per cui in un improbabile giallo ambientato a Bombay (oggi Mumbay) ritroviamo in nuce l’intera Storia dell’Umanità. Gran parte del fascino di quest’opera di Borges sta nelle segrete corrispondenze tra questo che è uno dei racconti più riusciti e misteriosi dello scrittore argentino, e i restanti testi che apparentemente parlano di tutt’altro. Contribuisce ad aumentare l’effetto di straniamento anche l’improbabile riferimento a La fonte sacra di Henry James, che invece tratta l’argomento in modo completamente diverso.

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Sub specie aeternitatis, si diceva un tempo. La Metafisica di Platone fissa le forme come eterne, il tempo invece le realizza e le modifica. Nel Novecento il tempo si è trasformato in uno spaziotempo: è crollata la distinzione platonica tra forme eterne e tempo reale, concreto della vita quotidiana. Il tempo dopo Einstein – e dopo Borges – non può essere scisso dalle forze, dai luoghi e dalle dimensioni del mondo o della zona dell’Universo che stiamo prendendo in considerazione. Il tempo dei racconti di Borges ha sempre l’eternità come sfondo, la perfezione come obiettivo. Che l’intreccio si svolga ad Atene, a Roma, a Parigi, a Londra, a New York, a Buenos Aires o a Bombay non ha importanza: queste storie sono storie destinate a rimanere eterne, a raccontare l’uomo in una prospettiva universale.

A ben vedere, Borges prende le mosse da una semplice considerazione di Plotino, che dice nelle sue Enneadi: “Possiamo conoscere il tempo soltanto a partire dall’eternità.” Nel terzo libro delle Enneadi leggiamo che la materia è irreale…  Si può ridurre un oggetto materiale oppure un uomo alle sue molecole e ai suoi atomi di carbonio, possiamo rinominare un essere umano come un’entità al carbonio, ma non sarà mai la stessa cosa, sarà sempre qualcosa di diverso da un semplice ammasso di atomi. Questa è l’unica Metafisica possibile nella nostra epoca, l’unica Teologia possibile: una Teologia che parte dall’uomo e ritorna all’uomo.

Il tempo dunque è una forza vettoriale, una forza di cui dobbiamo specificare non solo l’entità, ma anche la direzione e il verso; in via teorica, questo verso potrebbe andare anche dal futuro verso il passato…  Si può negare la distinzione tra l’oggetto e il soggetto e in definitiva la realtà stessa, come fa Francis Herbert Bradley, il filosofo neo-hegeliano su cui non a caso T. S. Eliot scrisse la sua tesi di laurea, oppure, come alcune filosofie indiane, si può negare del tutto l’esistenza del momento presente. Un’altra possibilità è quella di trasformare la propria stessa vita in un eterno presente, come fanno i protagonisti de L’invenzione di Morel, racconto quanto mai borghesiano, di Adolfo Bioy Casares. Ecco perché allora “nulla trascorre nel tempo, tutte le cose persistono in quel mondo, immote, nella felicità della loro condizione… la luce incontra la luce… ogni cosa è tutte le cose.”  Il che ci riporta ad un concetto fondamentale della poetica di Borges: ogni uomo è tutti gli uomini. Nella ricerca di Al-Mutasin ritroviamo la quest, l’indagine, la ricerca di tutti noi. E alla fine ci accorgiamo che l’uomo che stavamo cercando per tutto questo tempo altri non era che la nostra immagine riflessa. Ognuno di noi è alla ricerca di Al-Mutasin e ognuno di noi è Al-Mutasin. Eravamo noi il colpevole e non lo sapevamo, proprio come è accaduto tanti secoli fa a un certo Edipo. Eravamo noi lettori i veri autori dei libri che leggiamo, dei libri che abbiamo letto, e non ce ne eravamo mai accorti. Borges è il primo scrittore-lettore che ha fatto comprendere l’importanza essenziale del lettore, senza il quale l’opera-libro non può esistere.

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Gli individui e le cose esistono in quanto partecipano della specie che li include, che è la loro realtà permanente. Di qui la necessità per Borges di inventare sempre nuove tassonomie, sistemi di classificazione che riescano a ingabbiare in categorie ben precise, anche se bizzarre, tutte le possibili permutazioni della realtà. Ecco perché non si può essere specialisti, ma si deve cercare di leggere tutto. Un libro sui funghi – come il recente, bellissimo libro di Merlin Sheldrake, L’ordine nascosto (Marsilio, 2020) [recensito qui] – ci può aiutare a comprendere l’interrelazione di tutte le cose che esistono nel mondo. Le Mille e una Notte ci aiutano a comprendere l’Universo. Si tratta di un aspetto di Borges che è stato colto con una geniale intuizione da Michel Foucault, quando scrisse nella sua celebre introduzione a Le parole e le cose (1966) che Borges era colui che invece di inventare l’ennesima utopia, o distopia, aveva invece creato un’eterotopia, cioè un luogo altro, cioè la sottrazione del luogo dove le cose si possono incontrare.

Un saggio apparentemente scollegato dagli altri, eppure essenziale nell’economia della Storia dell’eternità, è il saggio sulle Kenningar, espediente retorico tipico dell’antica poesia nordica. Questo saggio dimostra la profonda conoscenza della grande Letteratura anglosassone e dell’Edda di Snorri da parte di Borges. In questo saggio l’autore argentino elenca alcune delle kenningar più belle, come la “Strada della balena” (l’oceano), la “Tempesta di spade” (la battaglia) e l’“Alimento di corvi” (i morti in battaglia). Anche questo saggio mostra la ricchezza della letteratura, soprattutto della grande letteratura anglo-sassone delle origini, e dell’importanza che ha avuto per Borges. Le kenningar dell’antica letteratura nordica e anglo-sassone hanno plasmato l’universo degli antichi popoli germanici e scandinavi, hanno plasmato la loro visione del mondo. Anch’esse fanno parte dell’eternità.

Altro saggio memorabile è quello su Le Mille e una Notte, analizzato soprattutto dal punto di vista delle sue traduzioni in inglese, a partire soprattutto da quella a opera di uno degli scrittori preferiti di Borges, quel Richard Burton che dimostrò nei suoi scritti una vastità di interessi paragonabile soltanto a quella dello stesso Borges. In Le Mille e una Notte vediamo dispiegata l’enorme potenza del racconto, che ha il potere di creare un tempo sospeso e di intrattenere i nostri potenziali carnefici per l’eternità e che, letteralmente, ci salva la vita. Sheherazade continuerà a raccontare le sue storie per l’eternità… e sempre troverà lettori e ascoltatori attenti che la staranno a sentire.

In questo periodo in cui si celebrano i 700 anni dalla morte di Dante, non potevamo trascurare l’enorme influsso che la Divina Commedia ha avuto sull’opera di Borges. Borges lesse Dante in una edizione con testo a fronte in inglese e in italiano, e alla fine della Commedia si accorse che aveva imparato l’italiano. “Se mi dicessero di salvare un solo libro, salverei la Commedia”, ha detto in una intervista. L’intuizione geniale di Dante, ripresa da Borges, è quella di intendere la Teologia come un genere della letteratura fantastica. E spesso ritroviamo delle dispute teologiche nei racconti di Borges e nella sua Antologia della Letteratura Fantastica, pubblicata insieme ad Adolfo Bioy Casares e con la moglie Silvina Ocampo, e tutta una serie di disquisizioni religiose nei Sei problemi per Don Isidro Parodi che furono pubblicati nel 1942, firmati con lo pseudonimo H. Bustos Domecq, e in Italia sono stati ripubblicati da Adelphi nel 2012.

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La prima legge della Termodinamica afferma che l’energia dell’universo è costante; la seconda, che quest’energia tende alla disgregazione, al disordine, anche se la quantità totale non diminuisce. Quella graduale disintegrazione delle forze che compongono l’universo è l’entropia. Una volta raggiunto il massimo di entropia, una volta uguagliate le diverse temperature, il mondo sarà un fortuito concorso di atomi. Nel centro profondo delle stelle quel difficile e mortale equilibrio è già stato raggiunto. A forza di scambi di calore l’universo intero raggiungerà il suo equilibrio, e sarà tiepido e morto.

Come nella Biblioteca di Babele, talmente sterminata che anche se ne distruggiamo centinaia di volumi, ne sopravvivranno sempre delle copie, che magari differiscono dalla copia distrutta per una sola virgola, per quanti libri di Borges distruggiamo, ci sarà sempre abbastanza materiale per ricostruirli. Tutti noi siamo lettori di Borges, tutti noi siamo stati creati da Borges, tutti noi siamo stati Borges, anche se magari non l’abbiamo mai letto. Qualsiasi libro, anche il più assurdo e improbabile, il più strano e introvabile, qualsiasi libro cerchiamo di trovare, di leggere o di recensire, scopriremo che Borges lo ha già letto, perché Borges ha già letto tutto, perché Borges ricorda tutto; tutta la cultura occidentale – e anche gran parte di quella orientale – si conserva nella sua memoria prodigiosa.