Ci si accorge subito della novità rappresentata da questo libro. Un libro importante, necessario, pubblicato nel pieno della pandemia e meritevole della più attenta considerazione nei luoghi del dibattito pubblico, dell’associazionismo e dell’attivismo femminista. Si tratta di un lavoro che dichiara immediatamente la propria intenzione: spezzare l’uniformità del discorso – tutto declinato al maschile – che domina ancora le analisi sulle migrazioni forzate del nostro tempo, per far emergere, negli spostamenti di popolazioni dovuti a guerre, persecuzioni, disastri ambientali, una estesa presenza femminile, costretta però all’invisibilità nella sua rilevanza sociale, politica e giuridica. A firmare questo studio sono Giorgia Serughetti e Ilaria Boiano, che grazie all’approccio multidisciplinare utilizzato hanno dato respiro, profondità, ricchezza argomentativa alla loro ricerca, intrecciando due prospettive, quella filosofico-politica e quella del diritto internazionale.
Le donne in fuga dal proprio Stato e in cerca di protezione in un altro paese non sono una novità dei nostri giorni. Tante hanno vissuto questa esperienza nel corso della storia, soprattutto nel Novecento. Oggi, però, nei flussi migratori che attraversano i continenti, le donna sfollate, profughe, richiedenti asilo hanno acquisito una “dimensione massiva”. Con acutezza di sguardo, fin dall’Introduzione, le autrici osservano come questo incremento numerico si inserisca in un processo di depoliticizzazione dell’istituto dell’asilo, fenomeno che interessa uomini e donne, ma che risulta per queste ultime particolarmente pervasivo. Confinate nell’ambito dell’assistenza, affidate all’intervento delle organizzazioni umanitarie, le donne, “soggetto impolitico per eccellenza nel pensiero occidentale”, finiscono per rappresentare, meglio di ogni altro, la riduzione della figura del rifugiato a soggetto “meramente bisognoso d’aiuto”.
A questo si accompagna, nell’approccio degli apparati burocratici statali e nella comunicazione mediatica, una raffigurazione della donna rifugiata come vittima, passiva e subalterna, consegnata a ruoli femminili stereotipati, privata di ogni specificità individuale, sottoposta, specie se proveniente “dal terzo mondo”, a immaginari di tipo “coloniale”.
Muovendo da queste premesse, Giorgia Serughetti sviluppa, nella prima parte del volume, un’analisi serrata dei rapporti tra donne e Stato che mette a fuoco la lunga estraneità femminile alla polis, l’esclusione storica delle donne da una piena cittadinanza, una cittadinanza “incompleta” perché fondata su una originaria discriminazione sessuale. La rifugiata, allora, in fuga dal proprio paese e in cerca di protezione internazionale, riunisce in sé, in quanto donna e straniera, una “doppia esclusione”: quella derivante “dall’ordine statuale modellato al maschile” e quella dovuta “all’ordine di un mondo diviso in Stati-nazione”. Facendo leva su questa duplice “anomalia” e rileggendo gli scritti di alcune grandi pensatrici del Novecento, Hanna Arendt, Simone Weil, María Zambrano, Ágnes Heller, dedicati alla condizione degli esiliati, degli apolidi, dei senza-patria, Serughetti offre un’indicazione importante. Non solo riconosce pieno valore politico ai vissuti delle donne rifugiate, ma intravede in loro una potenzialità dirompente, quella di esercitare, prima di altri, una critica radicale al sistema dei confini e degli Stati-nazione, di essere “avanguardie” nella costruzione di nuovi spazi di convivenza per le persone migranti.
Della invisibilità delle “donne senza-Stato” nel diritto internazionale si occupa Ilaria Boiano nella sezione ultima del volume. Con estrema limpidezza l’autrice evidenzia come nella Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato non siano contemplate le persecuzioni fondate sul sesso, non per una “casuale dimenticanza”, ma per una incapacità esplicita di riconoscere le esperienze delle donne in fuga dai propri paesi. È da questa incapacità che si è avviato il lavoro instancabile di tante studiose e attiviste aderenti al femminismo giuridico per promuovere, nei decenni successivi, riforme migliorative capaci di dare riconoscimento alla violazione dei diritti fondamentali delle donne.
Ma gli avanzamenti raggiunti in alcune risoluzioni sovranazionali non hanno modificato nel profondo mentalità, visioni del mondo e del rapporto tra i sessi. Ancora oggi le autorità chiamate nei diversi paesi a valutare le richieste d’asilo non considerano la specifica discriminazione di genere a cui le donne sono sottoposte nei luoghi di provenienza e lungo i difficili percorsi della fuga e dell’arrivo in territori stranieri. In queste sedi viene ancora adottato un “paradigma androcentrico come parametro universale” di verifica delle domande di protezione internazionale che non tiene conto della natura persecutoria della violenza domestica, sessuale, delle violazioni della libertà, della salute, dei diritti riproduttivi delle donne.
Esuli e profughe, spesso non credute nel racconto delle loro storie di vita, sono inserite nella categoria della vulnerabilità, pensata non come condizione umana “universale”, ma come dimensione dettata dal sesso di appartenenza. Così nei loro confronti si esercita un atteggiamento paternalista da parte degli Stati, disposti a concedere protezione, ma orientati a chiedere alle donne di uniformarsi a modelli di comportamento tradizionali, quelli della subalternità e del silenzio.
Un libro necessario, si diceva all’inizio. Così denso per i contenuti proposti da essere difficilmente imbrigliabile nei margini di una recensione. Un libro che in tempi di chiusura dei confini, di costruzione di muri e reticolati nello spazio europeo, rilancia, in una prospettiva di cambiamento, la soggettività politica delle donne, “il significato di resistenza e ribellione” rintracciabile nella loro esperienza migratoria.