Da quando – e sono ora più di venti anni – l’Alligatore è comparso sulla scena nera di Padova (e mai questa città fu immaginata tanto capace di produrre giorni bui e infelici, sensi e sensazioni così vicini alla realtà che soltanto chi l’ha attraversata con il sangue in mano può davvero conoscere), si è piazzato nel bel mezzo di una banda che ha oltrepassato le “generazioni perdute” (di strada, di film, di romanzi) di questi decenni d’inconsistenza e incomprensibilità.
L’Alligatore ha visto cose molto umane, sia della sua anima, sia delle anime morte o smarrite e corrotte in giro per le province italiane e europee. Le acque (e le vite) basse di un continente filtrate dal cambio di secolo. Non si tratta di romantiche leggende prese di peso dal noir americano, non del tutto, anche se questo strano protagonista affonda le sue radici nel blues di cui è stato interprete, e di cui Carlotto imbeve ogni storia (chiamarla “avventura” potrebbe apparire fuorviante e non sarebbe farle un buon servizio), fin dai tempi della Verità sull’Alligatore (1995).
Le competenze sono simmetriche, passano da un campo all’altro della malavita e della giustizia senza che nessuno alla fine si arrenda fiducioso. Poliziotti e assassini, donne di malaffare (non le “vecchie puttane” del titolo, che anzi prendono sulle loro fragili spalle tutta la pietà di cui l’autore è capace) e funzionari alle prese con l’Alligatore e i suoi soci storici (Max la Memoria e Beniamino Rossini) non varcano indenni le forche caudine installate all’occorrenza. Meno che mai in quest’ultimo romanzo.
Il nemico attuale (personaggio già apparso in altri romanzi) ha varcato la soglia del male che l’ex detenuto Marco Buratti, detto l’Alligatore, è in grado di sostenere e smaltire. La morte violenta subìta da persone incolpevoli fa scattare emozioni e desideri di vendetta che porteranno tutti su strade minate e pericolose, italiane e austriache. La serie di motivi blues ascoltati dal protagonista mentre la storia s’ingarbuglia non solleva la coscienza, e nemmeno il calvados di cui ama sapore e profumo. Gli anni trascorsi in gattabuia pesano esigenti, fanno scattare dialoghi pieni di risentimento, parole che sembrano rasoi, ma anche galanterie verso le apparizioni deboli (soprattutto Edith, puttana tenuta in scacco da una spietata maîtresse portoghese) che appaiono in certe parti del romanzo. Buratti sa essere romantico e gentiluomo, prigioniero di manie e tic che rendono meno ombrosa la sua esistenza agli occhi di chi ne segue lo svolgersi. Così Carlotto fin dall’esordio ha segnato il destino della sua creatura.
Non c’è scampo agli incroci forzati tra malavita e poliziotti, dove l’extra-legalità è un terreno comune e fangoso, dove le regole ogni giorno vengono sovvertite. Il tono di questa nota tende a non “rilasciare interviste” sui fatti: è quanto mai inopportuno mettere sotto il naso del lettore un simil-bignami del romanzo, o peggio, un estratto in stile Reader’s Digest. Nella memoria restano i flash, piazzati di tanto in tanto, sulla tossicità di una provincia ricca e stracciona, che Carlotto conosce bene e di cui appare ottimo giornalista letterario. Le vecchie guardie degli imprenditori della borghesia e della criminalità non esistono più, e proprio in questi anfratti viaggia lo sguardo dello scrittore padovano, dando vita a una specie di reportage dove niente è prevedibile per un occhio comune. Ma per l’Alligatore, cultore infaticabile della giustizia, pur pedinata con mezzi leciti e illeciti, resta la geografia originaria che lo porta su tutte le tipologie di strada.
Gli scrittori come Carlotto, che sanno “inventare” con la scorta di luoghi e persone reali, ci piacciono oltremodo perché quei loro zaini sono privi di griffes banali ma pieni di scorticature e scorie ben impresse sulla pelle.