Questi sono i fatti. Forse. Non potendo tralasciare l’esistenza, la realtà quotidiana (talvolta frastornante, bisogna dirlo) di uno scrittore ruvido come Philip Roth, a discapito della letteratura, con i suoi agganci iper-europei (Kafka, Levi, Kundera), Philip Bailey si mette eroicamente nelle braccia di un Roth “scatenato”, belligerante e ben poco tenero verso le donne della sua vita, misogino accusato senza scampo, e con meno espressività repellenti verso i suoi colleghi scrittori conterranei. L’amore per Bellow e i sicuri miti personali rappresentati da Updike, DeLillo, e forse qualcun altro. Dieci anni di lavoro per Bailey, intrepido estensore di un romanzo intricato e intrigante, fatto della stessa carne di uno scrittore che si è raccontato per più di mezzo secolo attraverso alter-ego narrativi, più veri del vero o al limite d’essenza fantasmatica, mai soffici e per lo più contemporaneamente relazionali, dentro la miglior cultura ebrea, impeccabili nella loro teatralità sessuale.
Niente di semplice, come sanno i rapiti o i nemici giurati di Portnoy, Zuckerman, dentro la agevole ammirazione per Pastorale americana. I filoni esistenziali di Roth sono un’enormità, strabordano dalle pur mille e più pagine di questo libro che ha raccolto posizioni ideologiche e vivaci critiche favorevoli e discordi. Le personalità femminili nell’esistenza di Roth sono vistose almeno quanto i conflitti avvenuti nell’ambito delle comunità israelitiche, nelle lotte fra cittadinanze newyorchesi e altri mondi, fra i “gentili” e gli “ebrei di professione”. Ci si chiede quanto l’autore del Teatro di Sabbath abbia voluto mettere in luce o avvolgere di penombra dando contro della sua vita nelle conversazioni con Bailey, documenti alla mano e “chilometri” di lettere e appunti. Ci si chiede come la parodia, filone più che evidente nell’opera, sia stata elemento preponderante nella descrizione della sessualità e dell’erotismo americani di metà Novecento. Tutte domande che negano una risposta semplice, né si può supporre che un libro come I fatti, autobiografia sui generis pubblicata da Roth nel 1988, faccia luce su dubbi e ondate emotive che investono il lettore del “bagno rothiano” disposto da Bailey.
Il fatto certo consiste nel mettere a fuoco la personalità umana (torrenziale, cronologica) e letteraria (aspetti sociali in primo piano), in modo che una volta conquistata la pazienza i lettori siano avvolti dall’enorme mondo narrativo presentato, comprese le svolte, le secche immaginative, i dolori alla schiena, le conquiste femminili, gli abbandoni e le riprese. E si comprende il perché del mancato Nobel, la mancata indulgenza dello scrittore e dei nemici – quest’ultimi, a dire il vero, provenienti da ogni settore sociale. E capiamo finalmente la grande importanza che l’intellettuale Roth pone nell’Europa dissidente, incontrando Primo Levi, Milan Kundera, Ivan Klima, Edna O’ Brien, addentrandosi così nei fili spinati dell’Olocausto, dei totalitarismi e degli esili, nei destini dei sopravvissuti.
Il centro della scena attraversa i decenni, si sposta dai drammi familiari alle escursioni ginecee, dalle polemiche razziste alle seduzioni geografiche (Newark, l’Upper West Side), rasentando il protagonista le più diverse rappresentazioni critiche: il talentuoso, il miserabile, il donnaiolo fallimentare. Ma l’immagine di Roth degli ultimi anni in Connecticut, costretto dal mal di schiena in piedi davanti a un leggio mentre digita al computer, diventa parte integrante del mito, confermando la sua preziosa indipendenza.
Il grande romanzo americano passa per ampi tratti attraverso i suoi libri, impastati come sono di insofferenza e sofferenza. Di sdegni, verità e menzogne: tutto quanto fa dell’America il mondo che conosciamo, gli Stati Uniti ebrei, razzisti, sognatori, sessuofobi e sessuofili. Chi è mai stato capace, a parte lui, di passare dalla tenace masturbazione iniziale (e iniziatica) al finale devastante della peste poliomielitica? Lamento di Portnoy, Nemesi: 1969-2010, dalle vendite milionarie a quelle deludenti, con in mezzo lo scavo su sé stesso. Zuckerman non ha dubbi quando dichiara nella sua lettera, parte finale de I Fatti: “Te la cavi molto meglio scrivendo di me che facendo una cronaca ‘fedele’ della tua vita”. La decisione ultima di Roth è stata quella giusta: Blake – ritenuto unico in grado di fornire una biografia monoliticamente esaustiva – guidato, spinto, corroborato o meno, ci ha convinti a seguire la vasta personalità di uno scrittore che ha imposto ferocia e pietà senza tregua in ogni sua narrazione. Plauso a Norman Gobetti, traduttore, per essersi aggirato in questi territori lucidando per bene i ferri del mestiere.