La straordinarietà di questo libro, in cui gli sguardi di due grandi interpreti del mondo parigino – uno letterario e l’altro visivo – s’incontrano senza incontrarsi mai davvero, risiede là dove testo e immagini esplorano e raccontano, ognuno con i propri mezzi, e ognuno mettendo la propria verità al servizio di coloro che questa verità la vivono. L’hanno vissuta. Nelle banlieues del 1940, dopo che i bastioni di Parigi erano stati demoliti per lasciare lo spazio a casermoni popolari – enormi, tremendi, che solo l’umanità vera di operai, contadini, venditori ambulanti e massaie, bambini e imbonitori, festaioli e derelitti mangiatori di topi, rendono possibile l’apertura agli occhi artistici di scrittore e fotografo.
Blaise Cendrars, già affermato, che tutti ha conosciuto con il suo girovagare nel mondo (Du monde entier, poesie 1919) fino all’esaurimento fisico, fino a che ogni periferia si è trasformata nell’interezza di tempo e spazio, là dove passano l’esistenza personaggi come Picasso e Chagall, Léger, Apollinaire. Blaise, reduce dalla legione straniera – senza un braccio poiché perso nella Grande guerra –, mai pago di scorribande e poi ai margini durante l’occupazione nazista, si ritrova in una nuova amicizia: il giovane Robert Doisneau sta lavorando a un reportage che lo porta in ogni angolo dei sobborghi parigini, dove abitanti di svariate età trascorrono una vita difficile, in luoghi dimessi, e dove sbarcare il lunario ha bisogno di grande insistenza e sacrificio lunare sparso tra fabbriche, festività noiose e eterne soste in miriadi di bistrot e bar che spesso non sono altro che poveri carretti con poche bottiglie e qualche bicchiere.
È l’inizio di una corrispondenza, l’invio degli scatti di Robert a Blaise, un lavoro compiuto separatamente che produrrà La banlieue di Parigi, opera che settantacinque anni dopo Clichy porta in Italia in grande spolvero, e recante le immagini formidabili di Doisneau e gli scritti straordinari di Cendrars, il tutto suddiviso e dedicato ai quattro punti cardinali delle periferie parigine: Sud, Ovest, Est, Nord. Bambini, Amore, Paesaggi, Domeniche e feste, Divertimenti, Lavoro, Capolinea, Abitazioni. Nei quattro capitoli scritti da Cendrars siamo trascinati nelle sue epiche digressioni, dove l’attenzione verso le cose distrutte e quelle in costruzione s’intreccia alla voglia per lui di avere un incontro con Erik Satie (“beccarlo” è il termine usato), sempre sfuggente ma capace di una musica “non d’arredamento”. Lo scrittore ha sguardo cupo, vede la desolazione là dove invece lo sguardo del giovane fotografo vede semplici ma ridenti svaghi, matrimoni celebrati per strada e affogati nel misero vino distribuito dietro l’angolo. Ancora l’ennesimo bistrot.
Il bianco e nero di Doisneau ha la stessa nobiltà del Cendrars errabondo e viaggiatore, è altamente preciso nel descrivere la distinzione della gente delle periferie, non certo per mitologizzare o dare significati astrusi a un mondo terribile e insieme felice. La facoltà della scrittura di rivelare tutto un popolo, senza mai ritirare lo sguardo o voltarsi dall’altra parte, fa il pari con la perfetta sincronia degli scatti che documentano multiformi esistenze, molto pratiche molto mobili. È nel pieno delle trasformazioni della banlieue che il dopoguerra vede fatiche e balli, bambini soli per strada e sguardi attoniti di operai sui treni – stanchi ma vivi. Questo illuminano, Cendrars e Doisneau: la vita lì non è un lunapark, ma del lunapark ha le stesse vivide attrazioni dove il tran tran quotidiano è un’officina destinata a operazioni pesanti, dove il dramma può stemperarsi in un attimo con una bevuta e uno sposalizio festeggiato sulla strada. Cendrars e Doisneau sorprendevano passanti, e ora sorprendono chi si avventura in questo album solenne e felicemente ricco di un’attualità “storica”.