«I can’t breathe», diceva Eric Garner mentre veniva strangolato da un agente della polizia di New York nel 2014. Le ultime parole dell’uomo, ripetute per undici volte prima di perdere coscienza e morire, diventarono uno degli slogan più forti e dolorosi del movimento Black Lives Matter. Slogan tristemente premonitore (o meglio, tristemente cosciente della realtà dei fatti), perché le stesse parole sono state ripetute solo qualche giorno fa da George Floyd a Minneapolis, mentre quattro agenti lo immobilizzavano a terra, e uno di questi gli teneva un ginocchio sul collo fino a ucciderlo. L’eterno ritorno del razzismo statunitense; la più implacabile, rodata e sedimentata delle istituzioni americane? Di recente Alessandro Portelli sul Il manifesto ha definito l’America bianca la «civiltà del ginocchio sul collo», rivedendo nel gesto di Derek Chauvin l’ennesima riproposizione del dominio padronale sullo schiavo. Un esempio rozzo ma efficace di biopolitica articolata in secoli di schiavitù: la sottrazione deliberata del respiro, che Portelli definisce «il più umano e il più simbolico dei diritti». E con il diritto al respiro scompare forse il più seminale dei diritti umani: quello alla parola.
Quella libertà di parola tanto cara alla democrazia statunitense, ed evocata attraverso l’appello continuo (e spesso anche parodistico) al Primo emendamento fino a svuotarla di significato che agli schiavi ribelli veniva negata nel modo più letterale e bestiale possibile: chiudendogli la bocca in un morso di metallo (la cosiddetta “mordacchia”). In Amatissima, di Toni Morrison la protagonista, Sethe, afferma: «quanto profondamente viene violata la lingua quand’è bloccata dal metallo. Giorni dopo, si spalmava del grasso d’oca agli angoli della bocca, ma non c’era niente che potesse dare sollievo alla lingua». L’umiliazione, il dolore, e il bisogno prettamente fisico di sputare che portavano gli schiavi a perdere momentaneamente il senno («una specie di follia s’insinuava negli occhi, e non c’era modo di farla scomparire», scrive Morrison), rappresentano la necessità, irrefrenabile perché continuamente repressa, di esprimersi contro un sistema che non ha mai davvero abbandonato il razzismo e la prevaricazione sui quali è stato fondato e che continua ad alimentare. Gli afroamericani, oggi, non respirano perché da quattrocento anni vengono soffocati, le loro lingue immobilizzate, le loro voci strozzate dalla violenza istituzionalizzata. Nel migliore dei casi, il paternalismo bianco si appropria del diritto al dissenso, smussando il furore e sanificando la rivolta nell’ennesima, innocua parata del Giorno del ringraziamento.
Come simbolico gesto di solidarietà e di vicinanza nella lotta per una società più giusta, noi di PULP riproponiamo alcune delle nostre recensioni dedicate a scrittrici e scrittori afroamericani, coscienti del ruolo secondario nel quale questi sono spesso ancora relegati dal monolite del canone bianco, e nella speranza di permettere ai lettori di scoprire alcune delle voci più interessanti della letteratura statunitense contemporanea.
Read in Power.
NNEDI OKORAFOR, scrittrice afroamericana di poco più di quarant’anni. I suoi dati biografici sono importanti perché ci aiutano a individuare le radici di un percorso culturale che molto ha a che fare con i cambiamenti che hanno modificato la società americana e occidentale, a partire dalla metà degli anni Settanta, quando lei nacque. Nnedi Okorafor non aveva ancora compiuto vent’anni che la grande Toni Morrison, nel 1993, vinceva il premio Nobel per la letteratura affermando per la prima volta la forza e il valore della scrittura nera, femminista, proveniente dalla classe operaia.
La presentazione (di Gioacchino De Chirico) di tre suoi romanzi: Binti, Laguna, Chi teme la morte.
ZORA NEAL HURSTON, etnoantropologa, scrittrice ed esponente della Harlem Renaissance, la sua opera arriva postuma, a quasi novant’anni dalla sua stesura, ed è un testo incredibile. Nel 1928, l’autrice ha trascorso diversi mesi a intervistare Oule Kossula, rapito a 19 anni in Africa occidentale e trasportato sulla Clotilda, in quello che si ritiene essere stato l’ultimo middle passage clandestino. Negli Stati Uniti la tratta di persone ridotte in schiavitù era stata infatti dichiarata illegale nel 1807, ma molti avevano continuato a lucrare sulla deportazione oceanica utilizzando delle navi più piccole e veloci, capaci di sfuggire ai controlli. Ne scrive Martyna Kander qui.
JESMYN WARD, nata nel Mississippi, nel 1977, decide di diventare una scrittrice per onorare la memoria del fratello minore, ucciso da un autista ubriaco nell’ottobre del 2000. Lei e la sua famiglia furono vittime dell’Uragano Katrina. Con la loro casa che si allagava velocemente, la sua famiglia decise di usare la macchina per raggiungere la vicina chiesa di comunità, ma finirono incagliati in un campo pieno di trattori. Quando furono ritrovati dalla famiglia bianca proprietaria del terreno, si rifiutarono di invitarli nella loro casa. Stanchi e traumatizzati, riuscirono a trovare riparo nella casa di una famiglia bianca vicina. Qui la mia recensione al suo Salvare le ossa: l’amore e la brutalità (che Ward impedisce spesso di distinguere) sono le cifre di questo romanzo carnale e poetico, che in originale suona spesso come un vecchio Blues o un flow contemporaneo – disperato, duro e autenticamente afroamericano.
COLSON WHITEHAD, nato e cresciuto a new York, considerato uno dei più significativi narratori americani di oggi, che sa dare voce ai fatti della storia per raccontare l’altra faccia dell’America, quella più oscura, intollerante e violenta. I ragazzi della Nickel è il suo settimo romanzo. Un romanzo duro, con un linguaggio essenziale e diretto, privo di ogni ridondanza, mentre la voce dell’autore non si lascia andare a facili giudizi, perché i fatti devono arrivare al lettore in tutta la loro drammatica realtà. Alla fine, molti dei ragazzi della Nickel se ne saranno andati, ma i loro sogni restano in chi prosegue la dura strada verso il sogno di un’America diversa e più giusta. Un’America che, come dice lo stesso scrittore, ancora oggi deve ancora fare i conti con le proprie contraddizioni. Ne parla Laura Fedigatti qui.
Infine un fumetto biografico sulla vita di BILLIE HOLIDAY di Josè Muñoz e Carlos Sampayo. Una storia segnata dalla differenza: di genere forse ancor più che di colore (i maschi che si sono approfittati di Billie Holiday non erano affatto tutti bianchi; e l’unico vero amico era il sassofonista Lester Young, notoriamente omosessuale). Ne scrive Umberto Rossi qui.
Post Scriptum
Abbiamo deciso di aggiungere alla lista anche una voce più vicina alla nostra esperienza: IGIABA SCEGO, scrittrice che ha affrontato l’eredità culturale del colonialismo italiano nel suo La linea del colore.
L’aggiunta dell’autrice rappresenta il nostro rifiuto di pensare al razzismo sistemico come qualcosa di lontano e sostanzialmente alieno al nostro paese. Contro il mito ipocrita degli “italiani brava gente”, una figura come Igiaba Scego è lì a ricordarci la necessità di riconoscere il nostro contributo alla storia dell’oppressione. E quello, non meno vergognoso, alle cronache del razzismo quotidiano e dello sfruttamento lungo la linea del colore.