Le biografie, si sa, sono viaggi affascinanti nella vita delle persone e nelle pieghe della storia. Probabilmente è proprio l’intreccio tra vicende personali di personaggi a vario titolo memorabili e quelle pubbliche e sociali del tempo che essi hanno attraversato a rendere tali esistenze avvincenti e meritevoli di ricordo. Ciò è tanto più vero nel caso di Emanuele Macaluso, scomparso di recente a quasi novantasette anni, la cui parabola esistenziale ha coinciso con un ampio tratto della storia contemporanea d’Italia: eroico dirigente sindacale della CGIL, deputato regionale siciliano, parlamentare nazionale per sette legislature (1963-1992), direttore de L’Unità (1982-1986) e de Il Riformista (2011-2012). Macaluso aveva 19 anni quando cadde il fascismo, 45 il giorno dello sbarco sulla luna, 54 durante il sequestro Moro, 65 quando crollò il muro di Berlino, un intellettuale che ha riflettuto sulla realtà italiana sino agli ultimi giorni della sua vita con articoli, interviste e interventi pubblici, non da ultimo con una seguitissima pagina su Facebook, dove tranciava lucidi e chirurgici giudizi sulla mefitica contemporaneità politica in cui affoghiamo.
Adesso possiamo apprenderne il percorso biografico grazie a un libro dello scrittore e giornalista Concetto Vecchio. Per oltre un anno, e fino a pochi giorni prima della scomparsa, Vecchio ha incontrato Macaluso nella sua casa romana, nello storico quartiere di Testaccio, per comporre un ritratto a figura intera, arrivare a toccare il nocciolo duro della sua personalità. “Come mettere in fila i fatti di una vicenda secolare?” si chiede l’autore, “una lunghissima vita, piena di gioie e di grandi dolori” come gli confessa Macaluso? Beh, lo fa intrecciando sfera privata e pubblica, inframmezzando abilmente il presente delle interviste, le descrizioni dell’uomo e del suo ambiente, con continui flashback, puntellando il racconto con altre fonti, per esempio intervistando la moglie, Enza D’Amelio, il figlio Antonio, integrandolo con ricostruzioni storiche e approfondimenti degli avvenimenti evocati da Macaluso con l’ausilio di libri, di articoli, di immagini di repertorio recuperate su YouTube, legando a doppio filo emotivo le vicende della storia personale dell’intervistato con la propria dimensione di giornalista e di uomo che cerca di comprendere la verità umana più profonda, quella che giace dietro le scelte, le lotte, le vicende pubbliche del suo “eroe”.
Da questo coinvolgimento intellettuale ed emotivo è sorto un libro che si legge come un romanzo del Novecento: l’infanzia nella sua Caltanissetta, la tubercolosi contratta da adolescente, l’impegno nel PCI clandestino durante gli anni del fascismo e l’attività sindacale nel primo dopoguerra, il grande salto a dirigente nazionale del Partito e l’attività parlamentare, il Sessantotto, gli anni del terrorismo, l’esperienza della direzione de L’unità, fino agli ultimi giorni, quando ormai era diventato un’icona della sinistra italiana. Insomma, è rappresentata per intero “l’avventura di una vita fuori dal comune”, la storia di un uomo inquieto e fiero, dalla coscienza integerrima, caratterizzato da “un’ammirevole assenza di vanità”, da “un’energia spaventosa”.
Le pagine che rievocano l’attività sindacale di Macaluso nella Sicilia del dopoguerra sono davvero coinvolgenti, vi figurano personaggi per più d’un verso eroici (Luziu Boccadutri, Girolamo “Momo” Li Causi, Pompeo Colajanni, Giuseppe Di Vittorio – “uno dei miei maestri” –, Pio La Torre, Leonardo Sciascia) ed episodi memorabili, come quello del comizio tenuto da Macaluso e Li Causi il 16 settembre 1944 a Villalba, nel cuore della mafia siciliana del tempo. Il boss Calogero Vizzini assistette impietrito alle accuse rivoltegli da Li Causi che, davanti ai contadini impauriti dalla presenza del boss, “smontò il sistema mafioso che reggeva l’economia del feudo”, dichiarando letteralmente: “Siamo venuti a Villalba sfidando i divieti di Calogero Vizzini, che è un volgare capomafia locale”. I picciotti del boss presero a sparare contro i comizianti, ferendo Li Causi. Vi fu un’inchiesta, ma, nella migliore tradizione italica, nessuno pagò.
Si racconta dunque di un sindacato epico in una realtà complicatissima e pericolosa, dove regnavano una miseria e una povertà spaventose, lo sfruttamento selvaggio dell’infanzia e delle donne, dove vigevano intimidazione e sopraffazione: in quegli anni, in un’isola dove gli agrari erano spalleggiati dalla mafia, che già “aveva un rapporto organico con lo Stato”, furono uccisi più di trenta sindacalisti e politici. “Bisognava ribaltare il mondo” ricorda il “vecchio leone del Novecento” evocando la sua iniziazione politica. Macaluso era insomma animato da “una voglia di giustizia” contro la “fatica disumana” degli zolfatari, dei braccianti e dei contadini della sua terra, e scelse la lotta politica per combattere una realtà di fame, di sfruttamento e di miseria anche spirituale atavica: “Ora vivevo in mezzo agli ultimi”, ricorda dopo oltre settanta anni, lo sguardo acceso e la voce ferma, “i contadini guardavano a noi con la speranza di un riscatto da una condizione sociale medievale”. “Insomma, sono diventato comunista non per ideologia, o rivalsa di classe, ma per la questione sociale”, conclude. Ma insieme alle lotte politiche sono ripercorse anche le prime esperienze amorose, la relazione con una donna sposata, Michela “Lina” Di Maria, con la quale finirà in carcere per il reato di adulterio nel 1944, subirà le pressioni della famiglia e del partito: “Colpevoli soltanto di amarci, questa era l’Italia miserabile di allora”.
Ovviamente, nella biografia assume centralità la vicenda del Partito Comunista Italiano, la cui storia Macaluso ha attraversato quasi per intero; vi compaiono i personaggi che ne hanno segnato la storia, da Togliatti a Berlinguer, da Longo, a Ingrao, a Napolitano; particolare rilievo assume il rapporto che egli ebbe con un altro storico personaggio della sinistra, Sandro Pertini, un’amicizia segnata in ultimo da una dolorosa incomprensione. Altrettanta importanza rivestono però le vicende private, come l’allontanamento da Lina, che gli aveva dato due figli, Antonio e Pompeo, il rapporto difficile con quest’ultimo, attivista della sinistra extraparlamentare, e il dolore per la sua prematura scomparsa, l’infelice legame con una donna che si tolse la vita per lui, l’amore per Ninni Monroy, nota aristocratica palermitana la cui figlia ribelle, Fiora, attivista di un movimento di estrema sinistra finì in carcere, procurandogli non pochi imbarazzi e grattacapi, la storia con la sua ultima compagna di vita, la moglie Enza D’Amelio.
L’epilogo riserva una sorpresa, un’ennesima emozione: l’autore ci racconta come, dopo lunghe ricerche e con l’aiuto di un avvocato siciliano, sia riuscito a recuperare il fascicolo dell’inchiesta per adulterio che nel 1944 portò in carcere Macaluso e la compagna Lina. Lui non aveva nemmeno 20 anni, lei 22. Come in un giallo, Vecchio ricostruisce gli eventi – le circostanze dell’arresto, gli interrogatori, la scarcerazione per intervenuta amnistia – cercando di colmare i buchi, poiché nel frattempo Macaluso era mancato. Nella documentazione recuperata dall’Archivio storico di Caltanissetta, acclusa alla fine del libro, c’era anche una foto di Lina, e alcune lettere che lei ed Emanuele si erano scambiati. Una testimonianza che aggiunge una toccante vibrazione alla biografia di una figura davvero straordinaria, “l’ultimo moicano”, come si definiva, “l’unico sopravvissuto in un mondo senza più testimoni”. Un uomo che ha segnato un’epoca irripetibile della storia d’Italia, e che, vale la pena di notare, nella sua lunga vita politica “non ha mai avuto né incarichi di governo né di sottogoverno, e non fu mai sistemato dopo la fine della sua lunga carriera parlamentare in qualche partecipata parastatale”. In breve, “un personaggio letterario che con i suoi eroismi e col suo spirito di contraddizione aveva attraversato il Novecento come dentro a un libro di avventure”.