La memoria storica include il tempo della narrazione, e dove le tracce della poesia – quando s’inclinano a diverse prospettive – convincono il teatro del mondo a non fare a meno dell’umana gravità, allora la grande o piccola partita dell’esistenza si spiana e diventa comprensibile. Ereditare per via familiare il “libro” di Leopardi vale come segnalibro unico e indivisibile. E, al netto di ciò che una giovinetta speri, o tenti di contrastare lo scetticismo, sarà sempre la poesia a venirle incontro e a farla ragionare su come, un giorno, scriverla. Bianca Tarozzi giunge alle sue Devozioni attraverso lunghe lusinghe temporali, dove la memoria è sempre stata in primo piano, sia nel prendersi a cuore i versi amati, sia nel caratterizzare la lingua sperimentata attraverso gusti eclettici e poi traduzioni: dall’inglese, tramite contenuti sentimenti e dimostrando che nella metrica può rintracciarsi la sostanza della narrazione. Basta rivolgersi, attualmente, alle sostanziose versioni di Ararat e Meadowlands di Louise Glück, per verificarne l’impresa.
L’esperienza “domestica” in questo nuovo libro, pubblicato da Molesini nella sua Venezia (collana policroma di opere a cui essere grati), compendia una continua fedeltà alla forma del racconto (che viene – e a cui la poetessa guarda – da Novecento e Ottocento richiamati geograficamente) dominata con felice criterio da versi regolari e riconoscibili (così come annotato da Berardinelli nel volume e altrove) in cui la lingua italiana si appropria di metriche e sensi troppo spesso abbandonati dalle odierne generazioni. Se in altri luoghi rari suoni, e altrettanto rare apparizioni, accadono, nelle poesie di Tarozzi questi non si tirano indietro, marcano il proprio esserci attraverso gli avvenimenti negli anni: da quelli legati all’infanzia alle avvolgenti storie della maturità. La “casa” della poetessa diventa un labirinto in cui le cose rivelano grazie orientali, e irrinunciabili fogli di libri, e immagini a cui il tempo non ha tolto la cromaticità, né i passaggi di luce e buio hanno affievolito la loro persistenza visiva.
Le figure incontrate da Tarozzi sono di tutti, raccolgono per vie d’acqua il mistero presto disciolto in un sorriso, poiché la biografia a cui sempre più si attinge passa dalle spalle alla visione diretta, innanzi a sé. Cosa ben rara essere salvati da voci che trasformano in benevolo un destino: in Devozioni domestiche questo accade in ogni pagina, quando i nomi non sono più soltanto nomi ma entità benevole che discorrendo fra loro parlano anche a noi, e additano perfezioni di odori e sapori presto avvertiti. Buona educazione leggere con cura senza sottrarsi a quel bene (forse l’unico) che ci è concesso. Il bene di una panchina alla Giudecca, la flebile voce di un passato profondo, il pianto di Madonne per le donne uccise. Così come per Celan, non si addomesticano i giorni togliendo lucidità allo sguardo.
E ancora una storia avviene in questo libro di poesie, dove il senso indiscusso della lingua è accordato alla concretezza della realtà. E se, in alcune parti, avvertiamo l’inclusione di mitologie personali, non impediremo alla classicità di svaporare proprio quando si affronta il dolore del distacco unito alla bellezza della pietà. Da siffatti contagi benevoli l’opera tutta di Tarozzi non si allontana, ed è in queste ultime pagine che possiamo avvertire le vicende liete e meno liete che dal passato si apprestano al futuro con la necessaria competenza.