Il libro di Betty Bouthoul, uscito nel 1936, racconta, in una forma ibrida tra narrativa e saggistica – attingendo rigorosamente alle fonti dirette – la vita e il mito di Hasan-i Sabbah, il Vecchio della Montagna, riformatore della setta sciita dell’Ismailismo e capo carismatico degli Hashishin, gli Assassini, che per quasi due secoli – avendo come epicentro la Persia e la Siria – terrorizzarono le autorità sunnite dell’Impero Selgiuchide, finché l’espansione mongola di Gengis Khan e dei suoi successori non ebbe finalmente ragione di loro.
Dall’inespugnabile fortezza di Alamut, il Nido dell’aquila, che dominava le montagne del Daylam sulla riva meridionale del Mar Caspio, lo Shaykh al-Jabal – che sarebbe corretto tradurre il padrone o il signore della montagna, non il “vecchio” – inviava i suoi Fida’i , sicari a lui ciecamente fedeli (oggi li definiremmo kamikaze) ovunque volesse, a eseguire le sentenze da lui decretate esercitando, senza mai muoversi dalla sua sede remota, un potere ellittico ma assoluto, basato sul terrore e sull’omicidio.
Amico d’infanzia e compagno di studi di Omar Khayyam, che diventerà il più grande poeta persiano, Hasan lascia presto l’antico compagno alla letteratura, agli studi astronomici e alla via contemplativa: per lui invece conta l’azione, l’intrigo politico, la ricerca smodata del potere. Anche la religione è solo instrumentum regni in un lungo apprendistato di sodalizi e tradimenti, di fortune e cadute: l’adesione all’Ismailismo è dettata più da machiavellica astuzia che da sincera fede. Si rivelerà però una scelta vincente e l’ambizioso avventuriero scalerà presto i vertici dell’ordine ponendosi grazie al suo naturale carisma come Gran Maestro e capo indiscusso della setta in Persia, emissario e veicolo dell’Imam nascosto.
La leggenda del Veglio, considerata veritiera dai più, affabulava che egli stordisse i seguaci con hashish e oppio, conducendoli poi in segreti giardini lussureggianti, in mezzo a fanciulle e fanciulli bellissimi disposti a soddisfare ogni desiderio: dopo il risveglio li convinceva di averli condotti in paradiso e che là sarebbero tornati se si fossero sacrificati per la causa ismailita. I Fida’i erano così disposti senza esitazione a tagliarsi la gola di fronte a lui, a precipitarsi dalle mura a strapiombo di Alamut, a eseguire fedelmente qualunque missione suicida.
Il rigore e la stretta aderenza al Corano e alle leggi islamiche, l’ubbidienza e l’attesa fanatica dell’Imam invisibile, valevano solo per i gradi inferiori dell’iniziazione ismailita, erano invece pura apparenza per i gradi alti della piramide esoterica: in punto di morte, a 90 anni nel 1124, le ultime parole di Hasan rivelano l’essenza reale del suo credo: “Ricorda: nulla è vero, tutto è permesso…”. Eppure lo Shaykh fu un uomo austero che allontanò le mogli e che fece giustiziare due dei suoi figli, uno per aver bevuto vino e l’altro per un’accusa di assassinio.
La sua fama, prima e dopo la morte, era giunta anche in Occidente: i Crociati avevano più volte incrociato con rispetto e paura i Fida’i, che – poiché si accanivano soprattutto contro le gerarchie turche e islamiche – consideravano quasi loro alleati e cripto-cristiani; i cavalieri templari si erano ispirati all’ordine ismailita sia nella simbologia, l’abito bianco a bande rosse – in forma di croce per i Templari – sia, soprattutto, nella struttura esoterica organizzata in gradi ascendenti e nell’aderenza solo formale ai precetti religiosi; perfino, molto più tardi, i gesuiti riprenderanno una formula ismailita: “obbediente come il cadavere nelle mani del lavamorti” che diventa per loro perinde ac cadaver.
Marco Polo, Odorico da Pordenone, perfino Dante nell’Inferno, ricordarono le gesta del Veglio e degli Assassini. Quando ormai Hasan era morto da tempo, i suoi successori Kiya Buzurg’ummid, Kiya Muhammad, Hasan II, Muhammad II, Rashid al-Din Sinan – ora proclamandosi non solo Gran Maestri ma direttamente Imam, inviati divini, ora rendendo manifeste anche ai gradi inferiori le verità esoteriche dell’ordine – snaturarono l’insegnamento originario del Veglio e i Fida’i si ridussero a mercenari e killer su commissione assoldati anche nei regni Franchi: da Riccardo Cuor di Leone contro Filippo Augusto; secondo testimonianze non troppo attendibili, contro Luigi IX di Francia, contro Federico Barbarossa durante l’assedio di Milano del 1158, ecc. (ancora secoli più tardi, durante le guerre di religione, dopo l’assassinio di Enrico IV di Francia nel 1614, il Papa fu definito “il Vecchio della Montagna vaticana”). Continuarono nel frattempo, imperterriti a minacciare i Selgiuchidi, gli Abassidi e i Fatimidi, finché non furono travolti dall’espansione occidentale dei mongoli: il nipote di Gengis Khan, Hulagu, distrusse Alamut nel 1265 e il colpo di grazia finale fu dato un secolo dopo da Tamerlano. I loro discendenti però non scomparvero, né la credenza nell’Imam, quel Nizan, “Fatimide d’Egitto, che Hasan-i Sabbah aveva portato ad Alamut e di cui il quarto Vecchio della Montagna si diceva figlio”. La dinastia Nizarita è proseguita fino a oggi, fino all’attuale Aga Khan.
Non stupisce che questa storia straordinaria e il libro della Bouthoul che mirabilmente la racconta, avessero colpito profondamente la fantasia morbosa di William S. Burroughs che fece di Hasan-i Sabbah un ispiratore, in quanto – secondo lo scrittore americano – esponente della dialettica del tradimento e dell’abolizione della legge. La figura di Hasan ricorre quasi ossessivamente, in numerosi suoi romanzi – Nova Express, Cities of the Red Night, The Place of Dead Roads, The Western Lands – e, tra immoralismo e tossicomania, il discutibile ultimo precetto del Veglio sembra fare di Burroughs il suo più tardo e sgangherato fedele. “Niente è vero, tutto è permesso”.