La forza di attrazione che il mondo animale ha sempre esercitato sugli esseri umani ha prodotto componimenti poetici, favole per bambini, cruente storie di sopraffazione e violenza e tanti studi scientifici come quelli di Gerald Durrell. Intorno agli anni Settanta del secolo scorso, ad esempio, La collina dei conigli di Richard Adams ebbe la forza dirompente di proseguire in questa tradizione uscendo però da una visione bambinesca e rassicurante che aveva caratterizzato le produzioni precedenti. In linea generale, le chiavi interpretative con cui si è affrontato il racconto della dimensione animale hanno avuto spesso le caratteristiche del paternalismo di esseri umani troppo cattivi o troppo buoni che comunque restano proprietari del destino di esseri inferiori.
In questi mesi però si è affermato alla nostra attenzione un piccolo caso letterario che vanta alcuni tratti di originalità. Si tratta del romanzo d’esordio del venticinquenne Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti, pubblicato da Sellerio nel 2021, che ha avuto il bene del premio Campiello nella sorpresa generale.
Protagonista è una giovane faina, di nome Archy, che vive con la famiglia ai margini di un bosco. Tutto intorno c’è la campagna che, in quanto fortemente antropomorfizzata, è una zona di pericolo per gli animali esposta com’è all’intervento violento dell’uomo. Nell’organizzazione verticale del suo gruppo familiare, Archy è l’anello debole avendo perso l’uso parziale di una zampa. Nei suoi confronti, la madre vedova è in grave difficoltà perché deve nutrire gli altri cuccioli. Allora decide di vendere il figlio meno fortunato a una volpe che lo terrà a bottega non senza fargli imparare molte cose interessanti. In questo passaggio il giovane autore ha il pregio di non lasciarsi andare a stucchevoli sentimentalismi e nemmeno a critiche più o meno velate sulla presunta cattiveria della mamma. Le cose accadono e basta. Quando invece nel racconto si registrano eccessi di “letteratura” si compiono allora alcuni scivoloni come nel caso della scelta del nome della volpe: Solomon, famoso mercante ebreo.
Con il progredire della storia, l’antro di Solomon acquista una centralità che conduce il lettore all’interno di una dimensione in cui mondo animale e esseri umani tendono a non distinguersi più. Sono soprattutto gli animali che vediamo vivere come gli esseri umani: hanno case borghesi, porte, lampade, sanno leggere, scrivere e fare di conto. Gli animali devono lavorare, fanno riferimento a delle istituzioni e a un potere costituito. Per la prima volta, nella storia di Archy affiorano prime valutazioni “etiche” e “politiche”. La sopraffazione da cui ci si voleva mettere al riparo diventa anche quella del mondo animale.
Finché si propone un salto ulteriore. Del tutto casualmente Archy sente parlare di Dio. Capisce che Solomon sa di cosa si tratta anche se la volpe è restia a concedersi, è restia a parlarne. Archy è sempre più eccitato e sempre più curioso. Non si perde d’animo e continua a premere su Solomon perché ha capito che lui sa dove si trova la parola di Dio. Dove è trascritta e sa anche che questa parola racchiude e spiega il senso ultimo delle cose. In questo modo la giovane faina zoppa diventa l’assistente della grande volpe. Ne condivide gli studi “teologici” e lo aiuta nelle faccende pratiche di riordino del suo studio.
Le riflessioni e le attività teoriche principali sono tutte concentrate sul Vecchio Testamento. Emergono cosi i temi forti della vita e della morte, della severità divina e della sua giustizia.
Al culmine di questo percorso di formazione verso la conoscenza, la faina capisce che la via più saggia nella vita è essere se stessi, seguire il flusso del tempo e delle stagioni, condividere le piccole e grandi gioie quotidiane con i propri simili. In questo modo Archy riesce a restituire dignità alla condizione umana e a quella animale nelle loro profonde differenze: da un lato la ragione e il sovrannaturale, dall’altra l’istinto e la lotta per la sopravvivenza. Alla fine di questo lungo percorso, in cui tutto sembra tornare al punto di partenza, Archy ci fa sapere che il lascito più importante che gli rimane da Solomon è la Scrittura vero e proprio antidoto nei confronti della morte.