“E se anche abbiamo deciso di rimescolare e capovolgere la lingua a nostro piacimento, di lasciar cadere le preposizioni insieme alle nostre mutande, per poi pisciare nel vasetto della sintassi e della pronuncia corrette, e di straziare a caso la grammatica, che importa? Non è in fondo un nostro diritto postmoderno e postcoloniale?” (Mr. Loverman, B. Evaristo)
“Comune è ciò che arricchisce la produttività delle singolarità! Comune è il fatto che un sacco di idee mi vengono quando tu e io parliamo di qualcosa! Comune è il fatto che se io ti amo, noi inventiamo cose insieme!” (C. Casarino, C., A. Negri, Praise of the Common. A Conversation)
“Essere una sistah è una reazione anche al modo in cui ci vedono, non solo a quello che siamo, il che va al di là di certe semplificazioni riduzionistiche, amore, perché quello che siamo è in parte una reazione a come ci vedono” lo dice Yazz, nera, sedici anni, a Courtney una ragazzina proletaria che viene da uno sperduto paesino inglese e continua: “la gente non ti vedrà più come una donna qualunque, ma come una donna bianca che frequenta gente di colore, e allora perderai un po’ del tuo privilegio, ma comunque dovresti sentirti una privilegiata, mi spiego, amore?”. Courtney risponde che: “essendo Yazz la figlia di un professore universitario e di una regista teatrale molto nota non può certo dirsi svantaggiata, mentre lei, Courtney, viene da un ambiente molto povero dove è normale lavorare in fabbrica a sedici anni ed essere una ragazza madre a diciassette, e la fattoria di suo padre è di fatto proprietà della banca”; Yazz precisa: “sì ma io sono nera”. Courtney però ha letto Roxane Gay e il suo Bad Feminism e prontamente ribatte che fare le «Olimpiadi del privilegio» non è una buona idea visto che il privilegio (o l’oppressione) dipendono dal contesto. Per questa volta #biancabattenera conclude Yazz! Mentre noi lettori abbiamo appena letto una fulminante ed efficace spiegazione di cosa sia il femminismo intersezionale.
Le Spaccaculi che stanno ammettendo fra le sistah Courtney sono quelle che la sanno più lunga – o almeno ne sono convinte – fra le moltissime donne nere protagoniste del romanzo di Bernardine Evaristo, ma anche le altre la sanno lunga. Tutte le donne di Evaristo hanno imparato piuttosto velocemente fra quali assi di oppressione siano state collocate: nate in Inghilterra, arrivate piccolissime da genitori appena immigrati dalla Nigeria, dal Ghana, dai Caraibi, nipoti e bisnipoti di immigrate, ragazze adolescenti e donne di 93 anni, eterosessuali o lesbiche, con sessualità fluide o incerta. Donne nere che si sono laureate in matematica nei paesi d’origine ma in Inghilterra fanno le serve, donne che sono riuscite a fare carriera e a studiare, e altre che fanno le operaie o le commesse. Bernardine Evaristo ha giustamente definito il suo un romanzo queer perché fa una cartografia critica dell’Inghilterra, della sua storia e della sua presunta bianchezza portando al centro della scena le figure che sessualmente, etnicamente o socialmente si vogliono ai margini anche nella scrittura.
Le dodici protagoniste nere o meticce, poste dall’autrice agli incroci degli assi di oppressione sono potenti dispositivi di sovversione di ogni ingenua aspettativa del lettore, spogliate di ogni caratteristica peculiare che razzisti e reazionari, ma anche progressisti e democratici sono pronti ad attribuire loro.
Per esempio Carol (inglese discendente nigeriana) sa benissimo che pur essendo una manager di alto livello ogni volta che ha un appuntamento con un cliente nuovo si deve aspettare di essere vista con sorpresa perché non ha un vassoio di caffè in mano quando entra nella stanza e regolarmente viene scambiata per la cameriera. Come dire che lo stigma del corpo nero non scompare mai, tema che la Evaristo complica intrecciandolo alla posizione di classe (lo abbiamo visto sopra), ma anche all’essere donna o avere una sessualità non conforme e allo scontro intergenerazionale fra tradizione (seppur ibridata) e libertà di comportamenti e scelte: per esempio contraddire l’aspirazione di ascendenza sociale delle famiglie scegliendo di diventare un’artista piuttosto che le professioni sicure (medico, avvocato, …) come fanno Amma e Dominique, registe e produttrici di teatro nero militante e femminista. Interessante, a proposito, come le istituzioni teatrali londinesi riconoscano, e in un certo modo assorbano, le istanze del teatro di Amma, che essendo sessantenne ha avuto modo di attraversare i cambiamenti del potere culturale, che da rigido e respingente diventa nel tempo sempre più bisognoso di riconoscere e valorizzare una cultura altra ed estranea che arriva dalla “strada” e che da parte sua ha avuto la capacità di imporsi. Ma l’intero romanzo è immerso nei cambiamenti sociali, politici e inevitabilmente antropologici che hanno attraversato l’Inghilterra nell’ultimo secolo, cambiamenti visti dall’ottica particolare di questo spicchio di popolazione. Evaristo a questo proposito, attraverso le storie di due insegnanti (Shirley e Penelope) e due alunne (la Carol di qui sopra e LaTisha) si sofferma particolarmente sul sistema scolastico pubblico radicalmente cambiato e abbandonato da Margaret Thatcher.
Le linea discendente di Megan/Morgan (la ragazza “dei binari” come la definisce affettuosamente la bisnonna), raccontata dai punti di vista di tutte le protagoniste, è significativa, invece, del rapporto fra generazioni e della ricerca della propria identità sessuale. In questo caso una famiglia pronta a lottare per i propri diritti non è altrettanto aperta verso la figlia che non si riconosce nel proprio corpo biologico. Un altro tema prediletto dall’autrice (oggetto anche di Mr Lovermann, il suo altro romanzo tradotto in italiano da Playground nel 2015) è lo scandalo della sessualità senile, del corpo non perfetto e non più giovane: “le smagliature che a Bummi sembravano un’opera d’arte e sotto le dita parevano braille”. Per Amma il sesso è “un piacere umano semplice, innocuo” alla soglia dei sessant’anni ne ha fatto molto e continua a farlo, e a chi le dice di andare in terapia per trovare un po’ di stabilità risponde “che era praticamente vergine in confronto a certe rockstar, maschi, che si vantavano di migliaia di conquiste e per questo venivano ammirati”.
Bummi in una vita interamente eterosessuale ha una relazione con una donna, e un’altra delle protagoniste addirittura con il genero, per non parlare di tutte le discussioni che attraversano il libro intorno alle varie sfaccettature della sessualità e delle sue tribù. E certamente alcune di queste donne sono anche omofobe o spaventate dal sesso. Mi rendo conto mentre scrivo queste note di quanto la cosa possa sembrare esagerata (un aggettivo che sembra essere sempre il più usato verso le persone nere che prendono parola sulla propria identità) ma nell’opera di Evaristo il sesso come compulsione pornografica con le sue dosi di alienazione è fuori dal romanzo; non c’è sguardo moralistico da parte dell’autrice e il sesso non è significante di nulla se non del piacere e del desiderio o paura di farlo. Il corpo nero, bello, brutto, giovane o vecchio è in primo luogo scandalosamente oggetto e soggetto di desiderio piuttosto che solo di sfruttamento e oppressione come siamo abituati a pensarlo e vederlo.
Anche la maternità, nelle sue diverse declinazioni, esce dai canoni fin troppo moralistici di cui l’ha rivestita certa letteratura femminile e tardo femminista. È centrale ma al tempo stesso non così pesantemente determinante sulle scelte di vita delle protagoniste e nei retaggi delle stesse.
Infine la memoria, nel suo intreccio letale con la nostalgia, un altro sentimento sempre associato alla migrazione e all’essere discendenti di immigrati, non è presente nel romanzo se non in modo sfumato. Così è per Roland, il padre omosessuale di Yazz, quando parla di nostalgia e dell’impossibilità per lui di sentirla perché dovrebbe ricordarne anche i morti, riferendosi alla strage causata dall’AIDS negli anni Ottanta. E le donne di Evaristo sono più occupate dai propri progetti e problemi che a indugiare in una memoria che comunque non è mai totalizzante. Anzi, paradossalmente, è solo Penelope, apparentemente bianca, a sentire la necessità di scoprire la propria origine, scoprendo così che la sua bianchezza, ma anche quella dell’Inghilterra, è costituita da una bella mescola internazionale.
Da quanto scritto se ne potrebbe dedurre che Ragazza, donna, altro sia un’opera didascalica, come in alcuni autori afrodiscendenti, per esempio gli ultimi lavori di Spike Lee nei quali il messaggio del regista fagocita la storia. Niente di più falso per questo romanzo totale in cui grazie alla scrittura ricorsiva piena di aria e di ritmo le storie personali delle protagoniste si integrano e arricchiscono perfettamente con i pezzi di dialoghi fra le stesse incessantemente occupate in conversazioni serrate e riflessioni sugli argomenti di cui il romanzo tratta. Riflessioni del tutto interne ai personaggi e costitutive degli stessi, mai una voce sovrapposta o esterna.
Le lingua che Evaristo dona alle proprie donne che parlano di sé, fanno le proprie riflessioni, interagiscono fra di loro, ricordano e raccontano la propria storia viene definita dalla scrittrice con il neologismo fusion fiction e lo stesso romanzo è un ibrido con un saggio pop.
È una lingua che si presenta anche visivamente come un poema senza maiuscole, con pochi segni di interpunzione e punteggiatura, che va avanti e indietro e struttura il romanzo, che parte dalla prima dello spettacolo teatrale messo in scena da Amma e finisce nella stessa platea, in modo circolare come le singole storie che si raccontano, in un andirivieni personale ma anche storico, per cerchi che si allargano, contaminano e producono senso.
Con una lingua così, Ragazza, donna, altro è perfetto per la lettura ad alta voce (verificato con grande piacere!), grazie anche alla traduzione fluente di Martina Testa. Un mare di storie in cui immergersi seguendo il ritmo della scrittura; la terra ci smotterebbe sotto i piedi – per i temi affrontati – se solo la scrittrice non fosse così ariosa e leggera, il mare con le sue profondità e il sostegno instabile ma potente dell’acqua è la metafora perfetta per questa scrittura all’altezza della complessità delle identità e del loro formarsi e aggregarsi.
Ragazza, donna, altro, richiama Vernon Subutex di Virginies Despentes per la stessa assenza di un narratore esterno, la coralità dei punti di vista, la felicità “pop” della scrittura, la vocazione totale. I due romanzi sono delle vere e proprie polifonie in cui i vari personaggi autonomamente si esprimono, riflettono su stessi, si svelano in un flusso di coscienza secondo una propria logica ed esperienza che gli deriva però dalla relazione in cui sono posti rispetto agli altri al proprio passato, al proprio agire; sorta di cartografie del presente, cassetta degli attrezzi che le due autrici ci consegnano per interpretare il mondo e i suoi abitanti.
Infine, Bernardine Evaristo preserva le sue eroine dalle esperienze più crude e mortificanti, la loro vita è dura a volte durissima ma in questo romanzo non ci sono violenze sessuali efferate, non ci sono vittime assolute, (“io non sono una vittima, non trattarmi mai come una vittima, mia madre non mi ha cresciuta per farmi diventare una vittima”) c’è pochissima nostalgia a tutte le donne è lasciato un margine di decisione e di potere che loro afferrano e volgono a proprio vantaggio e delle proprie relazioni che non sono mai chiuse definitivamente e morte. Le donne nere di Bernardine Evaristo sanno avere, grazie al proprio coraggio, passioni e desideri, delle vite degne e in definitiva sfuggono da due stereotipi molto comuni, quelli che vedono i neri o come delle povere vittime e cuccioli da salvare o come degli inquietanti cattivi, sempre contenitori di esperienze estreme sulle quali sono definiti e schiacciati.
Bernardine Evaristo con Ragazza, donna, altro è stata la prima donna anglonigeriana a vincere il Man Booker Prize (ex aequo con I testamenti di Margaret Atwood) e il suo libro in Italia è comparso fra i primi posti in moltissime classifiche dei libri dell’anno 2020.