“Il piede che appoggia sull’acceleratore e il piede che percorre la savana non danzano nella stessa maniera”. Bernard Stiegler, scomparso repentinamente due anni fa, è stato uno dei pensatori europei più determinati nel rimettere la tecnica al centro della riflessione filosofica e, quando possibile, della pratica, attraverso l’Institut de recherche et d’innovation (IRI), da lui fondato presso il Centre Pompidou. I due volumi de “La miseria simbolica” (2004) tradotti ora da Rosella Corda per Meltemi / Culture Radicali [1], ne forniscono una conferma estremamente significativa, e per molti aspetti anticipatrice, in quanto concepiti quasi 20 anni fa come un commentario al “Postscripto sulla Società del controllo” (1990) di Gilles Deleuze al volgere del nuovo “millennio digitale”.
Stiegler, un filosofo che ha scoperto la filosofia mentre era in carcere e che ha cominciato a pubblicare libri dopo i 40, ha un modo tutto suo di costruire il discorso dal basso, introducendo alle fondamenta, uno alla volta, i mattoni del suo Lego, incurante del loro diverso rilievo storico o disciplinare – Freud, Husserl, Simondon, Leroi-Gourhan, Aristotele, Deleuze – ma non prima di averli rigorosamente chiarificati e orientati nella direzione dell’arco che con il suo pensiero intende descrivere. Come metodo, in un testo che è un percorso aperto come questo, orgogliosamente rivendicato come un’ avventura intellettuale, torna spesso sui suoi passi per ricapitolare, riprendere, ribadire le fila del discorso, come un ritornello, ricalibrando le premesse prima di ogni ulteriore avanzamento.
Un modo relativamente semplice per inquadrare il suo pensiero è quello di collocarlo innanzitutto rispetto ai temi della modernità. Per Stiegler è un errore assumere nel corso storico recente la spezzatura della postmodernità (la fine delle grandi narrazioni etc.), una cesura avanzata venti anni prima, all’interno del dibattito sociologico e filosofico francese, a partire dal libro-manifesto di Lyotard: la modernità resta una, e le meccaniche dell’industrializzazione capitalistica non sono mutate ma, semmai, si rivelano sempre più in virtù del loro funzionamento, in una progressione che acquista sempre più slancio e velocità, mentre si espandono per diventare ogni volta più pervasive. Sarebbe quindi un fraintendimento ancora più grave immaginare lo sviluppo della storia moderna in modo lineare, perché l’industrializzazione e i fenomeni che la descrivono a tutto assomigliano tranne che a un veicolo che proceda a velocità costante, comodamente controllabile dal retrovisore dell’ideologia. Il loro movimento, comunque lo si misuri, esprime, al contrario un’accelerazione e una tensione costante: la modernità è per sua natura “iper” e dire modernità oggi può solo voler significare “ipermodernità”, come i mutamenti sociali introdotti dalla Tecnica, e nello specifico dalle tecnologie di comunicazione, hanno chiarito anche ai più scettici (siamo nel 2004) durante gli ultimi decenni.
E proprio le tecnologie del sentire, i supporti mnemotecnici – dalle grotte di Lascaux al cinematografo agli smartphone – che hanno definito i sapiens in quanto tali, poste al centro di un’accelerazione senza precedenti, prospettano ora il possibile punto di catastrofe della ipermodernità, della sua stessa auto-percezione Con la sincronizzazione dei riferimenti socio-culturali attraverso lo spazio si uniforma infatti anche l’esperienza diacronica che nel tempo consumiamo dentro e fuori le reti sociali. L’effetto, secondo Stiegler, è il venir meno del narcisismo primario, descritto da Freud, la dove entra in crisi l’economia libidinale che, ancorché individuale, trae consistenza attraverso il confronto collettivo, assicurando il processo di individuazione e, in pratica, la pluralità dei soggetti.
Tema non nuovo per noi oggi, qui colto con parecchi di anni di anticipo rispetto ai critici e agli “apocalittici” di Silicon Valley degli anni ’10 e, soprattutto, da diversa angolatura. I big data, il capitalismo “delle piattaforme” o “della sorveglianza” – che Stiegler ovviamente non chiama così ma sviluppa dalla prospettiva radicale della “Società del controllo” di Deleuze o, meglio, di un suo avventuroso post scritto – rappresentano soprattutto la logica dei consumi industriali portata al livello successivo. Ma, a questo livello, il gioco diventa non più sostenibile perché è il gameplay di una società refrattaria alla pluralità, che i sistemi digitali attuali possono tradurre esclusivamente come “particolarità”, dato, tracciamento, evento di profilazione, etc. La crisi dell’individualizzazione psichica e collettiva, che consegue alla standardizzazione dell’ambiente pre-individuale, da cui traiamo la possibilità di formarci come individui, e delle sue attuali modalità di accesso, conduce alla metafora del formicaio e, in pratica, al ritrarsi di quella ecologia libidinale che concorre a costituire il soggetto.
Ma facciamo un passo indietro. Per Stiegler il problema che si pone davanti a noi ipermoderni non è affatto la “perdita di memoria”. Al contrario, oltre che con i processi mnemonici di ritenzione primaria e secondaria, ripresi dal modello fenomenologico di Husserl, attraverso cui percepiamo e riconosciamo selettivamente gli eventi che si affacciano alla nostra coscienza, occorre invece fare i conti con un terzo tipo di oggetti temporali abilitati dai supporti tecnici. Questo terzo livello interagisce con gli altri due e concorre al flusso degli eventi e dei ricordi che ci definiscono in ogni istante.
Stiegler ricorre nella prima parte del saggio all’esempio di “On connaît la chanson” (in italiano Parole, parole, parole..), il film musicale di Alain Resnais, dove i protagonisti interpretano il loro ruolo nel quotidiano cantando (ed essendo cantanti da) canzoni francesi della tradizione collettiva. Ma se le reminiscenze fotografiche e cinematografiche di Resnais evocano pienamente il canone del Novecento, la “memoria tecnica” non costituisce affatto un’acquisizione antropologica della modernità e, anzi, proprio l’esternalizzazione della memoria (Leroi-Gourhan) ha caratterizzato come specie il nostro salto evolutivo. Prima delle pitture rupestri, della scrittura, dell’invenzione della stampa, con l’acquisizione della posizione eretta e l’abbandono della postura e delle abitudini motorie e olfattive del quadrupede, a costituire il primo grande “rimosso” collettivo, che la sfida tecnologica da allora ha soltanto rinnovato ogni volta attraverso nuovi dispositivi tecnici e ritenzionali.
Questo processo di alfabetizzazione, ovvero di grammatizzazione, che ci definisce come animali storici, approdato alla modernità, ha connotato nel segno dell’automazione i suoi sistemi tecnici e psichici, formalizzando anche i protagonisti del conflitto sociale: “In Occidente il teatro di questa lotta è il processo di grammatizzazione (..) La terza rivoluzione industriale in cui consiste la generalizzazione delle tecnologie informatiche e la ridefinizione dei saperi che ne risulta, appartiene a questo processo di grammatizzazione essendo la seconda (..) la rivoluzione della stampa”. Riprendendo lo schema di Gilbert Simondon, per il quale la modernità industriale caratterizza la centralità e il segno della macchina, trasformando il “lavoratore tecnico” nel soggetto proletario integrato alla catena di montaggio, nella fase attuale di iperindustrializzazione, caratterizzata dalla sincronia delle reti e dal default libidinale dell’individuo e della società, anche l’immagine del sé si è spostata dal lavoro ai consumi.
Stiegler non è un pensatore “catastrofista”, non nel senso, almeno, in cui fino a non molto tempo fa si pensava alla cultura di massa attraverso Adorno e “i francofortesi”, con i Darmstadt Feriencursen come unica possibile exit strategy. La tecnologia del sentire, cioè poi l’estetica, diventa qui terreno decisivo dello scontro politico. Non basta riprogrammare la tecnologia, occorre ripensare i corpi e riorganizzare il sensibile. La funzione dell’arte è centrale non perché è quella di essere specchio o martello ma perché quella di mantenere aperte le mitiche porte della percezione, cioè poi dell’individualizzazione, “reinstallando” la matrice psichica di una diversa organologia, riportando alla vita la sensibilità di organi non assoggettati, normalizzati, ergonomici. Di progettare nuovamente, in autonomia, defunzionalizzando e rifunzionalizzano le interfacce e i dispositivi che l’avanzamento della tecnica ha reso disponibili per tutti.
Se il “quarto d’ora di celebrità” di Andy Warhol esprimeva compiutamente, oltre mezzo secolo fa, la miseria del simbolico che si affaccia adesso dai talent televisivi direttamente sul nostro presente, la figura di Joseph Beuys, sideralmente opposta e problematicamente gemellare a quella di Wharol, si erge qui come santo patrono di un’arte ancora da inventare: “Beuys istruisce la questione artistica della tecnica e la questione tecnica dell’arte: è tra le figure di Epimeteo e di Prometeo che si insinua l’avvenire dell’arte”. La dote di Epimeteo, il titano sventato, non è il vaso di Pandora quanto l’errore in sé, l’errore da cui può scaturire (o non scaturire) la bonne chance, e non l’errore celebrato in tutti i corsi e i manuali per startupper, quello da cui “si impara” per rimettersi in piedi e ripartire da capo.
Per Beuys, che eccede in benevolenza, “siamo tutti artisti”, per Stiegler occorre sempre distinguere, “aristotelicamente”, la potenza dall’atto. Siamo tutti artisti ma soltanto in potenza. Come osserva Rossella Corda nell’introduzione, “Il ricorso che Stiegler fa di Aristotele appare sostanzialmente pervertito nell’uso (..) domandando cosa siamo noi, potremmo rispondere con un’analogia che, rilanciando la questione, siamo come le formiche sul nastro di Moebius. Proprio perché non se ne può uscire, si è in realtà sempre fuori.“
[1] Bernard Stiegler, La miseria simbolica. L’ epoca iperindustriale (vol. 1), Meltemi, euro 16,00. Bernard Stiegler, La miseria simbolica. La catastrofe del sensibile (Vol. 2), Meltemi, euro 17,00