“Il sentimento della natura non si può ridurre a un’etica. La libertà non è solo un dovere individuale, ma un principio collettivo”. Con queste parole Bernard Charbonneau (1910-1996), filosofo e fondatore dell’ecologia politica in Francia, espone chiaramente il senso degli sforzi odierni per una salvaguardia della “nostra casa comune”, come la definisce Papa Francesco.
Le Edizioni degli Animali portano in libreria forse il saggio più emblematico del pensatore di Bordeaux, Il Giardino di Babilonia, pubblicato originariamente nel 1969 e ristampato nel 2002. Al centro dell’opera – troppo poco conosciuta e considerata – campeggia quella che Charbonneau definì la “Grande Mutazione”, ossia il passaggio definitivo, irremeabile alla società opulenta e tecnoscientifica. “Coscientemente critica delle illusioni razionalistiche” – osserva Goffredo Fofi nella prefazione –, la prosa di Charbonneau è carica di una tensione lirica che sposta il discorso sulla dimensione tout à fait metafisica. D’altra parte, la prossimità filosofica con Ivan Illich, Jacques Maritain e Simone Weil è abbastanza evidente sin dalle prime battute: “Sulla polvere dell’Eden è sorta una città il cui impero si estende su tutta la terra. Ma la meraviglia di Babilonia è un giardino pensile in cima al suo slancio di pietra. Qualche albero e dei fiori, caduti dalle mani di Dio e che gli uomini seppero un giorno raccogliere… Ci fu un tempo in cui per gli uomini la natura non esisteva; e noi viviamo ora all’alba di un’altra epoca in cui la natura cesserà probabilmente di esistere”. L’idea di fondo è che l’uomo abbia via via artificializzato il concetto di natura, non vivendo più in armonia con essa, ma rendendola un ente (una “cultura”) a sé stante, separato dal Dasein.
Charbonneau, nelle quattro parti del testo (La città nella campagna; Verso la città totale; Il “sentimento” della natura, un prodotto dell’industria; Il fallimento del “sentimento della natura”), denuncia l’annientamento delle campagne a favore dell’“agglomerazione urbana” – il non-lieu di Marc Augé – e del “cittadino isolato dal cosmo”. Il suggerimento è allora quello di remonter aux sources, ritornare alle sorgenti, là dove è ancora possibile un’aderenza al primigenio. “Per l’uomo di città – evidenzia Charbonneau –, vivere, fisicamente e spiritualmente, è tornare alla natura. Ricerchiamo il contatto con gli elementi: il cielo, l’acqua, la terra. L’antica necessità è diventata un superfluo necessario. […] Ci piace tutto ciò che è un prodotto naturale, soprattutto l’uomo naturale: il buon selvaggio o l’individuo spontaneo, il personaggio romanzesco che segue solo i suoi impulsi istintivi”. Ecco il punto: affinché l’ecologia sia veramente efficace, deve lasciare l’habitus e ogni ordigno di originalità, per divenire una disposizione esistenziale d’integralità della persona umana. Soltanto da un atteggiamento di pace e di concordanza interiore si riesce a conquistare la piena consapevolezza dello spazio esterno. Temperando ogni tentazione truistica di “rivolta naturistica” ed “evasione individuale”, l’autore invita a coltivare il “sentimento della natura” che non è “vana nostalgia” postromantica, ma “rivendicazione di libertà e di una presenza spirituale”. “Il mito dell’Eden e dell’Età dell’oro – ricorda – sta a significare che ciò a cui tendono i nostri sforzi è dato sin dall’inizio”.
“Pensatore del quotidiano e del sensibile”, fustigatore della “società tecnologica e della crescita in tutti i suoi aspetti”, come sottolinea Latouche, Charbonneau ci esorta – lungo il pencolante ed esaltante percorso del Giardino di Babilonia – a non “spezzare il nostro legame con il cosmo”, certi che “il nostro giardino non è l’Eden, ma l’umile bellezza dei suoi fiori riflette la gloria di un’altra eterna primavera”.