Benvenuti al Bates Hotel

Guido Vitiello, Una visita al Bates Motel, Adelphi, pp. 251, euro 38,00 stampa

L’importanza di Psycho, il film di Alfred Hitchcock, nell’universo massmediale dagli anni Sessanta a oggi è un argomento in continua evoluzione tanto sulla carta quanto sullo schermo. Diciamo, per semplificare, che esiste un cinema prima e dopo Psycho (o Psyco come recita il titolo italiano, privo per qualche delirio autarchico della lettera “h”), e sul tema sono stati versati fiumi di inchiostro per altrettanti saggi più o meno lunghi e importanti.  Soprattutto abbiamo una discreta quantità di film tra derivazioni “ufficiali”, cloni più o meno consapevoli e interi filoni di inoppugnabile solidità storica (gli Hammer thriller e la scuola Argentiana degli anni Settanta). Senza dimenticare l’apporto televisivo con il serial Bates Motel.

Se a prima vista si potrebbe obiettare che il territorio sia stato ampiamente esplorato, è il caso di ribadire con forza che esistono luoghi filmici (loca infesta) i cui meandri non hanno fine. Soprattutto con Hitch. Tanto per scantonare ancora poche righe, non si è mai scritto ancora abbastanza su diamanti a troppe facce che si chiamano Vertigo o The Birds. Sullo stesso film si possono leggere interpretazioni del tutto diverse. È capitato anche con Stanley Kubrick e con Shining.

Ma il Bates Motel è sul serio un (doppio) labirinto della psiche. Doppio perché – è notorio – quaggiù c’è l’anonimo motel orizzontale e lassù la Casa Verticale, la Mother’s House modellata, anche se lo stesso Vitiello non ne è certissimo, sulla celebre Casa vicino alla ferrovia di Edward Hopper di sinistra geometria. Ancora oggi percorrerne i set è come salire sul Treno Fantasma. Le due estetiche sono complementari quanto contrapposte. Quella gotica della vecchia, sovrastante mansion, con la sua prospettiva sghemba vista dal basso, andrà a influenzare tanti famosi horror (Dopo la vita, Ballata macabra, Amityille Horror e Le notti di Salem, tra gli altri), mentre la costruzione orizzontale resterà appannaggio di thriller più realistici. Cedendo su questo punto la parola proprio a Vitiello (p. 37), “una costruzione così schiacciata sotto il cielo che quasi le mancava la terza dimensione: dodici stanze disposte come l’ordinata e l’ascissa di un piano cartesiano… Hitchcock ne sottolineava l’aria innocua per meglio preparare l’apparizione minacciosa della vecchia casa, artigliata come un grosso rapace in cima a una collinetta dietro Laramie Street. Lo schietto e quasi rustico stile Folk Victorian di tanti edifici fine Ottocento – la facciata simmetrica, il portico con le colonnine in legno scolpito – prendeva, stirandosi verso il cielo, i tratti leziosamente arcigni del gotico californiano; e sul tetto a mansarda in stile Secondo Impero, o General Grant, una finestra circolare vegliava giorno e notte come un occhio senza palpebre”.

E giunge allora il momento di saltare dal particolare, la suddetta citazione, al generale, il genialissimo e densissimo (di testo e di foto) libro di Vitiello, saggista di rango e ricercatore alla Sapienza, la cui indagine su Psycho è di sicuro “la più diversa” tra tutte quelle, e non sono poche, che l’hanno sin qui preceduta. Perché non riposa su coordinate prevedibili.

Se accettiamo l’ipotesi che Psycho sia soprattutto un “film psichico”, questo libro ne è la sua esegesi psicanalitica, antropologica e mitologica. Freud, ma soprattutto Jung, I cicli mitologici greci che l’autore accosta alla lenta e minuziosa (ri)scoperta degli angoli nascosti e dei particolari mai completamente afferrati: una sfida enorme e vinta senza alcun dubbio attraverso una meticolosa indagine iconografica che smonta e rimonta scene e sequenze con la complicità di quadri e immagini che stanno sempre sui limiti (borderline) della cornice schermica, quasi ai limiti della percezione. Due esempi fra i tanti: nel capitolo dal titolo Una luce da Eleusi Vitiello abbina la Primavera, celebre quadro di Bisson, alla rappresentazione della morte del detective Arbogast che vede proprio quel dipinto come sua ultima visione in vita, un’allegoria che rappresenta una donna dai capelli rossi, le braccia al cielo in segno di gioia, che sparge petali attorno, una connessione che ipotizza come “da quel dipinto allegorico, come sbalzato dalla tela, ha spiccato il volo il rapace che si è avventato su Arbogast”. Oppure la scena in cui Norman spia Marion attraverso un buco nella parete (il passaggio che nel remake di Gus Van Sant viene arricchito da una masturbazione ben più che presunta), fenditura che nel libro di Robert Bloch è dissimulata da un documento incorniciato, mentre nel film la carta che occulta è una riproduzione del quadro di Willem van Mieris Susanna e i vecchioni, accostamento analogico che lo stesso Vitiello, in una preziosa intervista rilasciata a Matilde Quarti [“Con Psycho Hitchcock gioca la partita finale con le sue ossessioni”, Il Libraio], così giustifica:

“Per spiare Marion da un forellino sul muro, Norman stacca dalla parete del salotto un quadro. Questo quadro raffigura un momento della storia di Susanna e i vecchioni, dove la giovane sposa è aggredita mentre fa il bagno in giardino. Un tema biblico, dunque: cosa c’entra la Grecia? Ebbene, l’esigenza di convocare i miti greci non è nata da un capriccio interpretativo o da un’impuntatura, ma dalla constatazione che Susanna, sul set, è circondata da quadri e sculture di Venere, Cupido, Psiche, Orfeo, Demetra… In questa scoperta mi ha aiutato la fortuna, perché non è facile identificare opere che si intravedono di sfuggita in un film in bianco e nero. Ma la fortuna, pare, aiuta gli audaci – e i perseveranti”.

Insomma, un metodo di analisi affascinante e inedito che ricerca l’essenza del film attraverso le immagini, alle pareti e non solo, che incorniciano tutta la nota vicenda, indagando le attinenze – che ci sono! – tra le “gesta” di Norman e tanti dettagli provenienti dal mondo dell’arte di epoche lontanissime dal tempo dell’azione. Se nutrissimo ancora dubbi, vale ancora una dichiarazione di Vitiello, sempre proveniente dalla succitata intervista:

“Una sera, rivedendo Psycho, ho fatto più caso del solito al salottino di Norman. I quadri, gli uccelli impagliati, le teche, le collezioni di libri… Dove avevo già trovato tutte queste cose insieme? ‘Sembra un gabinetto delle meraviglie!’, è il pensiero che mi ha attraversato la mente, ed è stata una piccola folgorazione. In quel momento, l’idea del libro aveva già preso forma, anzi c’ero dentro fino al collo, e avevo ben chiaro come procedere: si trattava, prima di tutto, di scoprire cos’altro ci fosse in quelle stanze.”

La fortuna aiuta sempre gli audaci e i perseveranti. E su questa linea Hitchcock e Vitiello corrono il rischio di incontrarsi. Pensiamo alla contiguità simbolica tra la scena della doccia in Psycho e quella della soffitta ne The Byrds, leggi il violento attacco dei pennuti contro la povera Tippi Hedren che ne uscì a dir poco rintronata. Lo stupro simbolico attuato da Norman Bates nei confronti di Marion Crane fu preannunciato – guarda caso – proprio dagli uccelli impagliati alle pareti del motel (impotenza) e dalla riproduzione del quadro di Susanna e i vecchioni rappresentante il preambolo di uno stupro (desiderio), a loro volta premesse della violenza subita da Melania Daniels nella soffitta di casa Brenner. Un’ovvia continuità di segno che proseguirà (ma non si concluderà) anche in Marnie. Stupri e omicidi pensati, fissati nella tassidermia o vibranti nella mitologia, fantasie rituali. Ed è su tali presupposti che la minuziosa indagine di Vitiello rischia di divenire una pietra miliare per quegli approfondimenti che, per il nostro piacere, non finiscono mai.