Lo scrittore americano Bentley Little sembra uno dei misteriosi personaggi usciti dalla sua fertile penna: se ne sa poco, e quel poco tende a creare un’aura di enigmatico fascino. Nato in Arizona nel 1960, è uomo ben coltivato (una laurea in Comunicazione e Master in letteratura inglese comparata conseguiti alla University of California), non ama apparire (le rare foto ritraggono un uomo con occhiali dalla montatura in metallo, barba e capigliatura folte e nivee, l’espressione burbera da individuo poco aduso alla mondanità), detesta lavorare al computer, di rado rilascia interviste, non s’impegna in attività promozionali dei suoi libri e non ha un proprio sito web. Però dal 1990 sforna a cadenza annuale romanzi horror dai titoli secchi, che suscitano un certo appeal visto che più d’uno è stato trasposto per il piccolo ed il grande schermo, e che tra i suoi numerosi estimatori si annovera Stephen King. Dopo aver dato alle stampe la sua opera d’esordio, The Revelation (che si aggiudicò il Bram Stoker Award), l’editore Vallecchi ci ha preso gusto e ne ha appena pubblicato un secondo, uscito nel 2015, The Consultant, forse anche per cavalcare il prevedibile successo della nuova serie da esso tratta, con Christoph Waltz nei panni dell’inquietante protagonista.
Oltre che nel titolo, il tema trattato è già nella dedica, a tal Natalie, “la quale conosce bene gli orrori del mondo lavorativo contemporaneo”. Quella parola, “horror”, ricorrerà per tutto il testo, metonimicamente come genere letterario e come realtà del lavoro nelle società contemporanee “avanzate”. Al di là delle indubbie qualità narrative di Little, che ha il dono di farsi leggere – anche merito dell’incisiva traduzione di Ariase Barretta – e l’abilità di creare personaggi e ambienti convincenti, è proprio questo l’aspetto interessante del libro: usare gli stilemi del genere per descrivere in maniera realistica e ironica gli “orrori” del sistema di lavoro che si è andato affermando nel neocapitalismo iperliberistico delle società occidentali, le deformazioni che produce nelle psicologie, i tremendi danni individuali e sociali.
Maestro di black humor e dell’uso del grottesco, Little ambienta la vicenda in una tipica compagnia del settore informatico californiana, la CompWare, specializzata nella progettazione di software di giochi. In un momento di crisi aziendale, il Consiglio di amministrazione, presieduto dal fondatore Matthews, assume una società di consulenza per riconsiderare e ristrutturare le pratiche di lavoro interne. Ed ecco apparire “il consulente”, Regus Patoff, eccentrico e misterioso personaggio dai modi impeccabili ma “dall’espressione vuota, come quella di un automa in attesa di essere messo in funzione”, con i capelli a spazzola quasi arancioni (un riferimento ironico a Donald Trump?) e il “papillon da nerd”, “uno squalo senz’anima” che sembra avvolto da un’aura di metafisico terrore.
Mr. Patoff, che assurdamente si rivolge a un dio di nome Ralph, comincia la sua opera di “riorganizzazione” (oltraggioso eufemismo col quale nella realtà si procede a massicci licenziamenti) con una fitta agenda di “colloqui confidenziali” con il personale, in una stanza “che sembra una di quelle in cui si svolgono gli interrogatori nei film polizieschi”, ma ponendo domande insolite e inappropriate, che esondano il lavoro e invadono la sfera personale. È l’inizio di un incubo dai risvolti appunto horror: i lavoratori si ritrovano “a vivere sotto assedio”, perderanno progressivamente ogni libertà formale e sostanziale, anche nella loro dimensione privata (il misterioso individuo sembra sapere tutto di ognuno di loro, si materializza nelle loro case, corrompe le dinamiche familiari). Ormai arbitro del loro destino, il consulente dispone modifiche arbitrarie e illogiche a protocolli in realtà funzionanti, giustificate con l’obiettivo dell’aumento della produttività: fomenta la delazione, riempie gli ambienti di telecamere (persino nei bagni), riduce i tempi della pausa pranzo, convoca con ossessiva frequenza riunioni di lavoro, sottopone a un controllo asfissiante i dipendenti, li bombarda con centinaia di mail, li obbliga a “esercizi motivazionali” come il cantare tutti assieme in una sorta di ridicolo karaoke, a partecipare nei fine settimana a “ritiri obbligatori” per “rafforzare i legami tra persone abituate a interagire solo in ambito aziendale” (una delle scene più immaginifiche e grottesche è ambientata nella natura selvaggia), a indossare determinati abiti e tipi di scarpe proibendone altri, impedisce le dimissioni dei pochi ribelli, finendo per trasformare la compagnia in un inquietante Grande Fratello, un luogo dove regna una strategia volta a “rendere le persone paranoiche per poterle manipolare meglio”, innescando una spirale di follia che costringerà i dipendenti a prendere atto che in gioco non è soltanto il lavoro, ma la loro stessa vita. In una tale atmosfera da “Gioventù hitleriana” in cui “nessuno si fida più di nessuno”, una Los Angeles vista come “giungla fredda e spietata” diviene epitome del mondo intero.
In questa sorta di horror-thriller aziendale, scene raccapriccianti non mancano, ma l’abilità dell’autore è nel farle apparire naturali, consequenziali all’evolversi della vicenda. Gli elementi orrorifici sono bilanciati dai concreti riferimenti a una realtà che il lettore nordamericano conosce bene, con l’allusione a big companies quali Apple e Microsoft, al dibattito statunitense sulla sfera dei diritti, alle sentenze della Corte Suprema che hanno smantellato il diritto alla privacy in ambienti lavorativi, alle leggi che consentono agli amministratori di monitorare i propri impiegati con un’impunità pressoché totale, alla precarizzazione selvaggia del lavoro, alla schedatura generalizzata di tutti i cittadini da parte dell’Agenzia per la sicurezza nazionale, e così via. Continui sono anche i riferimenti a temi tipici di quell’immaginario (il complottismo, il ribellismo, la manipolazione delle coscienze, il soffocamento della libertà), all’universo massmediologico (in particolare al cinema, alla televisione, ai giochi delle playstation), a suggestivi universi musicali (Tom Waits, Santana, Jefferson Airplane, il jazz).
Memore dell’insegnamento di un classico come Il signore delle mosche (esplicitamente citato), facendo propria la lezione di Stephen King, Little sembra dunque attualizzare gli incubi distopici di James Ballard e di Philip Dick, adeguandoli al suo contesto narrativo e alla realtà tecnologica del nostro tempo, disegnando così uno scenario pauroso, invero solo un pizzico oltre la realtà del nostro tempo, quasi a suggerire che è questo il futuro più che prossimo che ci attende se non sapremo porre un freno alla deriva inumana che ci ha travolti. Sta a noi, pare dirci l’autore, ribellarci, innanzitutto recuperando quel fondo di umanità che nel mondo contemporaneo sembra smarrito, smettendo di “obbedire come automi” a volontà superne tese alla divinizzazione del mercato e della produttività, ma anche spogliandoci delle “protesi virtuali” che ormai ci caratterizzano, a cominciare dagli smartphone. Non a caso, il romanzo si apre con una secca frase esclamativa, riferita al protagonista, Craig Horne: “La colpa era sua!”. Quale colpa? L’aver controllato la posta elettronica al mattino, appena sveglio.