Che cosa si può raccontare, e fino a quale grado di dettaglio? Quando un biografo inizia a diventare invadente e indiscreto, e a partire da quale momento la sua eccessiva confidenza con la persona di cui sta ricostruendo la vita può apparire un’ossessione? È lecito, o persino doveroso, domandarsi come reagirebbe la persona in questione, il soggetto protagonista, alla lettura di quella biografia? Sono domande che ci poniamo leggendo la dettagliata biografia di Susan Sontag scritta da Benjamin Moser, con la quale lo scrittore ha vinto il premio Pulitzer per la biografia nel 2020. Leggerla infastidisce tanto quanto gratifica. Alla maggior parte di noi interessa, in effetti, conoscere a fondo i difetti, i limiti, i gesti di cattiveria, le contraddizioni di una delle più grandi scrittrici degli ultimi decenni. Tutte quelle piccolezze e insicurezze, dietro alla facciata di intellettuale acuta e lucidissima, dalla cultura sterminata, già rivelate dai diari pubblicati dal figlio David dopo la morte, nel 2004. Ed è possibile che la diretta interessata – che sui diari scriveva: “Una delle principali funzioni (sociali) di un diario è proprio quella di essere letto di nascosto da altre persone” – avrebbe tratto dal suo biografo ulteriore materia per ragionare sui temi di una vita: la distanza tra la persona che si è e quella che si costruisce di fronte agli altri; la differenza tra realtà e metafora; il rapporto con la verità e con la negazione del vero.
L’impressione, accresciuta dalla lettura di Moser, è che Sontag dicesse continuamente (a sè, agli altri) di non barare e continuamente barasse. Un atteggiamento che ha radici nella storia familiare. Moser insiste sul rapporto ambivalente con la madre Mildred, una figura irraggiungibile e con problemi di alcolismo, che Susan ha probabilmente amato e odiato in eguale misura. Il padre muore di tisi quando Susan ha cinque anni; la madre le dirà che è morto di polmonite e in seconde nozze sposerà l’aviatore Nat Sontag, dal quale la figlia prenderà il cognome (passando da Sue Rosenblatt a Susan Sontag; dirà: “Impossibile sentirsi sinceri quando si viene fotografati. E impossibile sentirsi gli stessi dopo aver cambiato nome”). Legge tantissimo, sin da bambina, e la scrittura diventa il modo, il suo modo, per costruire un io solido, vincente, credibile: una metafora che la aiuti a sedare il disagio di sè. All’esterno l’intelligenza e la profondità intellettuale la ponevano su un piano molto alto dal quale incuteva soggezione agli altri. Ma dietro la posa, lei si sentiva debole e cercava di rafforzare quell’io interiore tanto fragile con la scrittura. Alla domanda perchè scrivere? nei taccuini, poco più che ventenne, risponde: “Perchè voglio essere quella persona, una scrittrice, e non perchè abbia qualcosa da dire. E tuttavia perchè non anche quello? Rafforzando un po’ il mio ego – come attraverso il fait accompli offerto da questo diario – conquisterò la certezza di avere anche io (io) qualcosa da dire, qualcosa che deve essere detto. Il mio ‘io’ gracile, cauto, troppo sano di mente. I buoni scrittori sono egotisti sfrenati, fino alla fatuità.”
Scrivere come speranza di un io, di fronte a quell’altra sè che la osservava di continuo, che le chiedeva se era davvero all’altezza di una cosa e di un’altra, che le rappresentava un ideale continuo di perfezione morale. Ad accrescere la sua mancanza di libertà c’era anche il senso di vergogna (molto rimarcato da Moser) a lungo provato per il suo essere omosessuale. Un imbarazzo che pesava su quella dicotomia tra corpo e mente che ha segnato Sontag per tutta la vita. La distanza tra la mente e il corpo; l’alienazione rispetto a quella forma che è nello stesso tempo strumento di piacere ed emozioni. Da ragazza si propose – un vero e proprio cronoprogramma – di scoprire l’amore e il sesso, il linguaggio del corpo, con donne e con uomini, ma le sue relazioni sessuali comportarono sempre la presenza di un superiore e di un subordinato (padrone e schiavo) in una forma di sadomasochismo nel quale il sesso era legato con il dolore, con il dare l’amore e con il riprenderlo poco dopo.
Le vicende personali e sentimentali nella biografia si intrecciano con la scalata rapidissima all’élite intellettuale americana a partire dagli anni Sessanta. Dopo il matrimonio e il figlio, da giovanissima, e un libro di rilettura di Freud (Freud moralista) firmato dal marito Philip Rieff ma probabilmente da attribuire in buona parte a lei, Sontag iniziò a pubblicare saggi e recensioni su “Partisan Review” e su “The New York Review of Books” (il cui primo numero è del 1963) e testi letterari. Nel 1966 esce la sua prima raccolta di saggi, Contro l’interpretazione: un titolo discutibile visto che lei era la prima a spiegare e dissertare su tutto. Non riusciva a vedere e basta. Non guardava mai fuori dal finestrino durante un viaggio in treno, si rifiutava di assorbire il mondo al naturale. Considerava il linguaggio corrotto e contaminato, e per questo a suo dire molte opere del suo tempo (dalle tele vuote di Rauschenberg a Persona di Bergman) sono fatte di silenzio, cercano di inglobare elementi di sacralità propri della religione. Ma Sontag non era una mistica e si esprimeva attraverso quello stesso linguaggio rifutato.
La maggior parte dei suoi saggi non giunge a opinioni ferme e a conclusioni. Nel celebre Sulla fotografia (1977) esprime una visione sia positiva sia negativa della fotografia. Spiega, come scrive Moser, “in che modo le persone diventano immagini, in che modo l’individuo è inglobato nella rappresentazione dell’individuo, e in che modo l’immagine e la rappresentazione – la metafora – finiscano per essere preferite alla cosa o alla persona che esse rappresentano”. La metafora, la fotografia, la visione, alterano la realtà almeno tanto quanto la rivelano. Il libro in parte scaturì dalla vista (a fine 1972) della mostra postuma di Diane Arbus, che aveva ritratto molte persone deformi, veri casi umani trasformati in prodotti: la sofferenza degli altri alla mercè di tutti, un’operazione moralmente discutibile (il freak show di Arbus ci può abituare e anestetizzare di fronte al dolore) ma che in fondo permette anche di rendere visibile quella sofferenza, e quindi magari di agire su di essa, cercando di alleviarla. Guardare il dolore degli altri e le conseguenze sulla nostra coscienza (sopraffatta e tramortita oppure risvegliata) sono temi ricorrenti di Sontag, sin da quando da bambina aveva visto a Santa Monica alcune fotografie dell’Olocausto e ne era rimasta traumatizzata. Tornerà a ragionarci osservando le immagini della guerra in Vietnam e poi, in anni più recenti, quelle delle torture subite dai prigionieri iraqeni ad Abu Ghraib: è il soggetto al quale dedicherà i suoi ultimi scritti nei primi anni Duemila (Davanti al dolore degli altri, Nottetempo 2003) ma che continuerà ad attraversala anche postuma, se pensiamo alla scelta (discutibile e freak, oppure profondamente coerente con il personaggio) di Annie Leibowitz, la celebre fotografa compagna di Sontag negli ultimi anni, che pubblicò le foto della scrittrice malata, sofferente durante le sedute di chemioterapia e, infine, morta, distesa su un tavolo con un lungo abito plissé (A Photographer’s Life 1990-2005, Random House 2006).
Il rapporto con la malattia è un elemento chiave della vita e della scrittura di Sontag. A quaranta anni, nel 1975, scopre di avere un tumore al seno al quarto stadio. Una volta guarita, con i capelli diventati completamente bianchi, adotterà il look iconico con quale la conosciamo: trasandati capelli corvini lunghi alle spalle, con un’unica ciocca bianca a lato della fronte. Tre anni dopo pubblica Malattia come metafora, un breve saggio in cui indaga sulla formazione della metafora del cancro. La malattia era percepita da molti come una colpa meritata, uno stigma: una metafora che impediva ai pazienti di affrontare bene e tempestivamente la terapia. Sontag tenta di smontare il meccanismo che porta ad attribuire un significato al tumore, rendendolo punitivo. Nel 1989 uscirà il seguito, L’AIDS e le sue metafore, focalizzato su una malattia (che privò Sontag di molti amici) nella quale il fantasma della vergogna, collegato a presunte colpe di natura sessuale, ebbe un peso fortissimo. Ancora una volta tenta di distinguere tra oggetto e metafore, in particolare quelle del corpo, applicando la strategia di Contro l’interpretazione al mondo reale, nella convinzione che le sovra-interpretazioni deformino l’esperienza dell’essere malati e la percezione esterna della malattia.
Gli anni Ottanta, dopo la guarigione dal tumore, sono un periodo di scarsa produttività e di crisi creativa (nel 1980 esce Sotto il segno di Saturno). Il debole riscontro suscitato dal testo sull’AIDS secondo Moser è imputabile al fatto che Sontag non si espose mai pubblicamente ammettendo la sua omosessualità, un gesto che molti attivisti anti-AIDS chiesero ripetutatamente a lei e Leibowitz. Sontag non uscì dal closet, non ammise mai che il suo corpo fosse direttamente coinvolto. Non volle essere etichettata in alcun modo, neanche come femminista, il che spiega secondo Moser il fatto che alcuni saggi femministi pubblicati a inizio anni ’70 (Il doppio standard dell’invecchiamento, nel 1972, fu il primo) non siano stati raccolti in un volume e ripubblicati. Forse non volle rischiare di essere marginalizzata dalla cultura ufficiale. Molte sue scelte, certamente contradditorie, eludono però una spiegazione razionale, o di comodo, e questa considerazione vale anche per l’impegno civile e politico.
Nei primi anni Novanta, dopo l’uscita del suo romanzo di maggiore successo, L’amante del vulcano (1992), fu più volte in Bosnia durante la guerra e nel 1993 mise in scena a Sarajevo un Aspettando Godot. I diari testimoniano i pensieri che la accompagnarono anche in quel periodo, relativi alla funzione dell’arte e delle metafore in generale e a che cosa si può fare in relazione al dolore degli altri – lei che pure, nella vita personale, spesso mostrava durezza e assenza di empatia. Nel 2002 scrisse che tra i ruoli della letteratura c’è quello di “approfondire la consapevolezza (con tutte le sue conseguenze) che altre persone, diverse da noi, esistono davvero”. Fu nettissima, e molto criticata, contro la politica e la retorica americana all’indomani dell’11 settembre 2001 e di nuovo di fronte all’invasione dell’Iraq nel marzo del 2003. Pochi giorni dopo l’attacco alle Torri Gemelle scrisse un articolo che iniziava con una frase ancora sulla distanza tra oggetto e metafora: “Il divario tra la mostruosa dose di realtà di martedì scorso e le ciance ipocrite e le mistificazioni bell’e buone ammanite da personaggi pubblici e commentatori televisivi è sorprendente e deprimente”.
Di fronte a questi eventi drammatici (ai quali si sommò, sul piano personale, il ritorno del cancro: una seconda volta alla fine degli anni Novanta e una terza che la porterà alla morte, dopo una terapia dolorosa, nel 2004) sentiva ancora maggiormente la necessità di vedere (e di comprendere cosa significasse vedere) e capire di più, problemi che, come scrive Moser, “forse poteva affrontarli solo una persona a cui l’empatia non veniva spontanea: una persona che ha un udito normale di rado pensa a come sentano i sordi. Il suo handicap, e il suo desiderio di superarlo, la portavano a riflettere su fenomeni che per altri erano scontati, e mettere in dubbio le sue stesse idee arricchiva le riflessioni”.
È stata una grandissima recensionista, che non stroncava quasi mai, riusciva a far apparire collegamenti prima irriconoscibili e nei saggi raccontava, malcelata, sé stessa, usando i personaggi di cui narrava la biografia e le opere come controfigure. Si imponeva piani di lettura e di lavoro rigidissimi, alla Martin Eden (un romanzo che la colpì molto in gioventù), aiutata dallo speed, dalle anfetamine e da altre sostanze. Fu fedele, nel corso di tutta la vita, al tema così tanto scontato e consustanziale allo stare nel mondo da essere pressochè invisibile e irrisolvibile: il rapporto instabile tra realtà e metafora (linguaggio, arte e la rappresentazione che diamo di noi). “In un mondo diviso” – scrive Moser – “portò un io diviso. Ma se lei era integrata nella sua epoca, il suo più grande tema se ne discostava. Aristotele aveva scritto che ‘la metafora consiste nel dare a una cosa un nome che appartiene a qualcos’altro’ e Sontag dimostrò come la metafora formasse, e poi deformasse, l’io; come il linguaggio potesse consolare e come potesse distruggere; come la rappresentazione potesse confortare ed essere al contempo oscena; perchè persino un grande interprete dovesse essere contro l’interpretazione”.
La biografia di Moser, che prova a raccontare Susan Sontag estraendola dalla celebre e pubblicamente nota “Susan Sontag”, è un testo necessario per chi si interessa alla biografia personale e letteraria della scrittrice; nella consapevolezza, però, che Susan Sontag verosimilmente risiede, e nello stesso tempo sfugge e non ne è estraibile (perchè questo lo permette la metafora principale, ovvero il linguaggio), principalmente nei suoi scritti, e in particolare in quelli meno evidentemente autobiografici. Come ha scritto Cioran (autore amato dalla scrittrice), riferendosi alla sua produzione saggistica: “L’unica confessione sincera è quella che rendiamo indirettamente, parlando di altri”.