Ancora il problema (che infine non è per umani) del tempo per Benjamín Labatut, alle prese con l’estensione del suo (precedente) Un verdor terrible, uscito per Adelphi nel 2021, verso la mente “ordinatrice” di colui che nel progetto “Manhattan” e in altri progetti successivi, nonché nell’esistenza propria e altrui, profuse genialità smisurate ma aliene e terrificanti. Si chiamava Neumann János Lajos. Eugene Wigner, fisico ungherese anch’egli impegnato nella costruzione della bomba atomica a Los Alamos, e appartenente al coro di voci inserite da Labatut nel suo libro, lo descrive come un “alieno in mezzo a noi”, circondato da un’infinità di storie esagerate fin dalla tenera età, tormentato e roso dalla logica. Divenuto Johnny von Neumann, assunse su di sé prima di tutto un programma che potesse determinare in un unico insieme l’intero universo matematico. Progetto da pazzi, noi diremmo, da perderci la testa (e alcuni la persero), che portò l’ungherese, in compagnia (stretta, larga, di tutti i tipi) con personaggi che si chiamano Einstein, Fermi, Bohr, Oppenheimer, Wigner, Heinsenberg, Feynman, e così via. Molti si eclissarono nell’Ovest degli Stati Uniti, molti videro e udirono fenomeni mai visti da occhio umano, e tutti compaiono nelle storie, personali e collettive, in cui Labatut ci sprofonda, quella sorta di labirinto fisico e mentale da cui non si esce più.
L’intrico di scienza e volti della scienza, la nebbia quantistica che tutto avvolge dai primi decenni del ’900, non danno scampo a tutti noi, inconsapevoli ogni giorno quando premiamo tasti che ci portano direttamente lì. Nella mente spalancata ma incomprensibile di queste menti irripetibili che hanno scassinato la visione del mondo e deturpato per sempre la coscienza umana. Un intrico di responsabilità e visioni contrastanti da cui nessuno è mai uscito: l’invasione dell’Ucraina, il ritorno della Jihad, la débâcle climatica, l’insorgenza dell’IA. Quando a Trinity la luce bianca compattò l’atmosfera e gli osservatori osservarono le proprie ossa attraverso la carne, Feynman che era presente ci dice con le parole di Labatut che quel sole improvvisamente apparso alle cinque e ventinove minuti e quarantacinque secondi del mattino era il calore della bomba perché il sole non c’era a quell’ora. E dice anche che fu la mente “logica” di von Neumann a calcolare esattamente a quale altezza dovessero esplodere le bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki per provocare i danni maggiori.
I “marziani” ungheresi, secondo la battuta di Fermi, sembrano l’antimateria delle caverne, quando gli antenati conoscevano solo il fuoco scaturito dai temporali: esistenze – in primo luogo von Neumann – che dopo il rilascio delle forze nucleari promisero la costruzione di calcolatori capaci di gestire calcoli militari e calcoli industriali. Dall’astratta macchina di Turing a un’architettura semplice che “avrebbe cambiato il mondo”. Julian Bigelow racconta (Labatut sa di cosa parla) che costruirono una specie di strumento musicale, era il 1951, cinque anni per farlo: MANIAC. Capriccioso e inaffidabile. Ma un vero calcolatore, che scaldava tanto da sciogliere il catrame del soffitto.
Qualcuno ci giocò a scacchi, ma von Neumann pensava di fargli creare un nuovo tipo di vita. È a questo punto che Labatut mette insieme nel suo libro geni incomparabili e veri scienziati pazzi, il MANIAC cominciò a funzionare e c’era chi pensava di poter creare la vita con i numeri dentro una memoria da cinque chilobyte. Oggi le questioni scientifiche, tecniche e filosofiche, occupano laboratori e pagine dei giornali, figli e nipoti si arrovellano su quanto concepirono Turing e von Neumann. Occorre la mente singolare di Labatut, capace di mettere insieme le scene e le storie in un intrico di racconti che fanno girare ciò che sembra astruso e impossibile da farsi – e che qualcuno, al contrario, prova a fare. Occorre, e appare come una necessità “biologica”, molto umana a differenza di quanto pensava il matematico ungherese prima della fine.
Sempre Wigner, lo scienziato amico, racconta con Labatut che quando morì nel 1957 von Neumann lasciò incompiuta la ricerca degli “automi autoreplicanti”, teoria di un modello in cui biologia e informatica avrebbero creato un’esistenza tutta nuova. Si doveva arrivare a una soglia dopo di che le macchine, non necessariamente fatte di leghe metalliche e plastica, avrebbero dato il via a un processo evolutivo esponenziale creando una progenie di sempre maggiore complessità. Ma con una manciata di chilobyte sull’intero pianeta nel 1957 queste restavano fantasticherie, ben poco di più. Ma oggi, oggi la singolarità è vicina. Il punto di svolta, è scritto ai tre quarti del libro: Von Neumann di fronte a chi gli chiedeva cosa fosse stato necessario perché un calcolatore cominciasse “a pensare e comportarsi come un essere umano” disse “che avrebbe dovuto crescere da solo, e non essere costruito. Comprendere il linguaggio. E giocare, come un bambino”.
L’ultima parte di MANIAC, Lee o I deliri dell’intelligenza artificiale, ci porta direttamente nel nucleo della nostra esistenza terrena giunta sul bordo di un’altra esistenza, la prima, considerando Gödel, rivolta alla seconda tramite il principio in base a cui “tutto ha una causa”. Lee Sedol, maestro di go 9° dan (gioco inventato in Cina due millenni e tre secoli a.C.), è raccontato come l’unico essere umano che riuscì a vincere un sistema di intelligenza artificiale avanzata. Ma dopo il 1997 i computer non lasciarono più vincere alcun essere umano giocando a scacchi. E venne il tempo di una “divinità” messa in campo da Google, AlphaGo, che fra capricci e infinite (nel vero senso della parola) partite contro se stesso umiliò in modo spaventoso il campione umano di go nella sfida avvenuta al Four Season di Seul. Quando Lee, nel 2019, annunciò il ritiro molti insorsero contro la decisione ma i tempi erano maturi per la comparsa di uno strano giocatore. Non un uomo, come si confessò poco dopo, ma il successore di AlphaGo, una IA in grado di vedere l’intero “universo del go” e quindi capace di annientare chiunque. Dopo go è il turno degli scacchi, e dopo ancora di shōgi. La nuova entità ha un nome, Labatut lo svela nell’ultima frase del suo libro, dandoci modo di percepirne l’ispirazione terrificante che la guida. La sua tecnica non ha più nulla di umano, la sua esperienza non attinge più alla nostra esperienza, questo perché gli è stata privata qualunque connessione diretta con l’umanità. Terrestri, marziani… il focus da qui in poi è altrove: non si tratta più di entità sorte in territori di qualsiasi consistenza planetaria.