Benedetta Centovalli / Emily Dickinson sconfina nel futuro

Benedetta Centovalli, Nella stanza di Emily, La Tartaruga, pp. 176, euro 17,00 stampa, euro 9,99 epub

Ci sono luoghi, case, stanze che mantengono fra le proprie pareti memoria di coloro che lì hanno vissuto, risonanze che si propagano e continuano a vivificare quegli spazi, anche se disabitati da tempo. È assenza che si fa presenza. Dopo le voci, i respiri, i desideri, i pensieri, il silenzio rimane. Ma è solo apparente. Coloro capaci di guardare sanno che resta qualcosa, nell’aria, sospeso – come un anelito di vita: invisibile ma presente, riconoscibile in una regione più profonda del sentire. Perché ciò che è invisibile agli occhi non è inesistente. Alcuni luoghi ti aspettano, attendono che tu ne senta il richiamo. Abitati da una solitudine che non è prigione, ma àncora generatrice dell’atto poetico. Non è esclusione dal mondo, ma una via estrema per abitarlo da un’altra soglia – profonda, silenziosa. Bisogna lasciare fuori il mondo per poterlo sentire; serve distanza per poter vedere. Chiudere la porta è la scelta di affacciarsi all’abisso: morire un po’ ogni volta per poter, ogni giorno, festeggiare la vita. Sostare sul limitare del mondo è un privilegio: permette di vedere in profondità le cose dell’esistere, di spogliare la realtà della sua apparenza e, con “sguardo obliquo”, cercare il senso fra gli interstizi dell’esistenza. La solitudine è la via, perché si è soli di fronte al proprio desiderio. A cosa serve, poi, il mondo, se ce l’hai già dentro – ed è talmente vasto che le parole, per raccontarlo, si squarciano oltre le regole del tempo?

Nella stanza di Emily diventa “una stanza tutta per noi” in cui Benedetta Centovalli ci invita a varcare la soglia di una “porta stretta” per intraprendere un pellegrinaggio lungo il confine tra la vita e la morte – un viaggio sulla vertigine del possibile, che da materiale si fa letterario, simbolico, catartico per riconoscere tratti della propria esistenza attraverso quella altrui, quella di Emily, e scoprire che, nonostante tutto, si è vissuto davvero. Ma non è questo, in fondo, il senso della poesia? Un canto per non sentire la presenza costante della morte, per salvare la realtà dal suo non senso. Poesie, frammenti di lettere, affiorano fra queste pagine che profumano di sacralità. Pensieri nascosti all’incomprensione del mondo – bisogna proteggere ciò che si ama, anche da sé stessi e dal proprio dolore – si sprigionano nel “pieno del pochissimo”, come un’urgenza di verità. In una piccola stanza che diventa universo. Ed ecco che questo dolce peregrinare di Centovalli fra i luoghi di Dickinson, in cui ha vissuto e scritto, diventa il nostro errare nella lettura – e, attraverso il potere trasformativo dell’invenzione, essere lì, anche noi.

L’autrice ci porta nei luoghi di una scrittura resiliente davanti al rifiuto del mondo – quello vittoriano, sordo alla voce di Emily, incapace di leggerne la scrittura, compresa solo da qualche anima affine. Emily e l’urgenza di cogliere il mistero di ciò che non si vede, che non si sente – l’essenza dell’incomprensibile, per tradurlo in parole che portano in sé l’afflato dell’immortalità. Emily, che viveva “nella luce del suo fuoco”, “una quieta –Vulcanica – Vita – che brillava nella notte”. Un libro di riverberi, che dall’autrice giungono fino a noi. Un cammino verso prossimità sospese – per preparare i nostri occhi, non ancora pronti, alla rivelazione del mondo. Per scoprire, infine, che quella stanza è anche la nostra.