Ben Okri / Il linguaggio costruisce i cinque sensi

Ben Okri, Preghiera per i vivi, tr. Elena Malanga, La nave di Teseo, pp. 220, euro 19,00 stampa, euro 9,99 epub

I ventitré racconti che compongono la Preghiera per i vivi di Ben Okri sono altrettanti mondi possibili che scaturiscono da una scrittura precisa e visionaria, materica ed evocativa. Da Londra a Istanbul, dalle Ande al ghetto, i luoghi di Ben Okri non sono semplici descrizioni, cornici di avvenimenti, ma prendono vita e conducono lungo sentieri tortuosi dove tutto è come appare, pur non essendolo mai. Lo slittamento di realtà e di significato è in agguato dietro ogni angolo, dietro ogni parola densa di concretezza e di rimandi.

La voce di Ben Okri, vincitore del Booker Prize, è potente e soave, incanta e imbriglia. I racconti sono diversissimi tra loro per trama e ambientazioni ma ognuno di essi, pur restando totalmente autonomo dagli altri, acquista una forza straordinaria dall’insieme dell’opera, asimmetrica e destabilizzante, e tuttavia perfettamente unitaria.

C’è chi nella disperazione della guerra rigira i cadaveri a terra cercando i propri cari, chi è innamorato di un luogo irraggiungibile, chi risolve omicidi basandosi sul proprio intuito: i personaggi di Okri, nelle loro vite tanto diverse, camminano tutti in punta di piedi sulla soglia tra realtà e magia, tra vita e morte, luce e oscurità. Sono funamboli sospesi su universi alternativi che tuttavia, per chi è disposto a guardare al di là del proprio orizzonte, sono ben più tangibili e presenti di quella che siamo abituati a chiamare realtà.

Il tempo è un altro elemento chiave dell’opera: passato e futuro convergono in un eterno presente, uguale a se stesso eppure sempre in movimento, dove le vite umane, con i loro affanni e i loro dolori, sembrano ridursi a un granello di sabbia all’interno di un universo ben più vasto e incontrollabile di quello che siamo soliti considerare da un punto di vista antropocentrico. Eppure, questa visione più ampia dei confini del reale non libera i protagonisti di Okri dalla responsabilità individuale, né tantomeno da un’idea di destino, inteso quasi come un dono, un talento insito in ciascuno che, se inseguito con costanza e senza pregiudizi, porterà a risultati prodigiosi – e la meta irraggiungibile sarà raggiunta.

L’irruzione dell’inaspettato nel reale è la cifra caratteristica di questi componimenti che Okri ha chiamato “stoku”, ovvero l’unione tra una “short story” e un “haiku” giapponese. In essi l’autore gioca con le parole, costruendo frasi lineari apparentemente tradizionali nella struttura, per poi operare impercettibili slittamenti che ribaltano ogni certezza. Il linguaggio che ne risulta è concreto, denso, e sollecita i cinque sensi: sentiamo l’odore del Bosforo, perdiamo la vista annegandola nella nebbia di Londra, avvertiamo ogni rumore e ogni silenzio, amplificato dalla voce dell’autore che sa moltiplicarsi e penetrare obliquamente nella pagina fino a farsi presenza viva eppure invisibile, mutevole.

In un racconto particolarmente emblematico, la verità assoluta cercata dal grande re porterà solo a illusioni e a un gioco di scatole cinesi, ma il ritmo circolare tipico dell’oralità di quelle pagine echeggerà perfino nei racconti più crudi, stemperandone in modo poetico la brutalità – e se non fosse tutto altro che un sogno? Okri, tuttavia, insegna che i sogni possono essere ben più potenti della realtà, in un universo dove tutto è strettamente interconnesso: “Siamo come siamo per come sono gli altri,” disse poi con tranquillità. “È difficile da capire.” “È molto semplice. Io sono come sono per come sei tu. Creiamo la nostra realtà a vicenda”.

Solo accettando la vastità del tutto in cui siamo immersi potremo cogliere le infinite possibilità del mondo che ci circonda, i ribaltamenti di senso che, conducendo fuori dal tracciato prestabilito, arricchiscono quel percorso nell’ignoto che è la vita, e abbracciarne la profonda complessità, che comprende anche la morte: “I morti che c’erano nella scuola erano, perdonatemi il paradosso, vivi. Non ho altre parole per spiegare la loro serenità. Avevano reso sacra la stanza. Negli ultimi momenti non avevano pensato a se stessi, ma a tutte le persone che soffrono. […] Sapevo che la preghiera era forse una gran perdita di tempo. Ma pregai per ogni cosa che vive, per le montagne e gli alberi, per gli animali e i corsi d’acqua e per gli esseri umani, ovunque si trovassero.”