Lipstick Traces di Greil Marcus, uno dei più grandi critici musicali americani, professore universitario a Princeton e Berkeley e biografo ufficiale di Bob Dylan, pubblicato per la prima volta in America nel 1989, uscì in Italia nel 1991 suscitando molto scalpore e diventando subito un libro di culto. Ora viene riproposto dal Saggiatore nella traduzione di Mita Vitti, ed è un libro fondamentale per comprendere non solo il movimento Punk, ma l’intero XX secolo, un incubo dal quale non siamo ancora riusciti a risvegliarci. Scritto con lo stile immaginifico e accattivante tipico di una recensione discografica, uno stile che Marcus riesce a sostenere per più di 500 pagine, seguendo un sottile filo logico che parte dai testi delle canzoni per arrivare fino alle loro estreme conseguenze, Lipstick Traces ripercorre la storia del Punk dal 1978 al 1979 e ci fa comprendere come la sua velocissima traiettoria affondi le sue radici in alcune delle avanguardie artistiche del Novecento. Anzi, secondo l’interpretazione di Marcus, il Punk non sarebbe altro che l’ultima avanguardia del Novecento, l’ultimo assalto contro la società e l’arte, contro le majors della discografia, contro il rock’n’roll, l’unico movimento di vera opposizione totale a qualunque possibilità di essere divorato e accettato dall’industria discografica e dalla cultura di massa.
La tesi di fondo del libro – semplice e allo stesso tempo geniale – è dunque che il Punk sia stato molto più di una moda giovanile, molto più di una rivoluzione in campo musicale – si è trattato invece di un fenomeno culturale e sociale di vasta portata che ha cambiato la storia del Novecento, con radici culturali che addirittura si possono far risalire al Dada, ai Situazionisti e addirittura ad alcuni mistici medievali e rinascimentali – Marcus si diverte a giocare sull’assonanza tra il vero nome di Johnny Rotten, John Lydon, e l’eretico olandese Giovanni di Leida (Jan van Leiden), capo di una setta anabattista i cui adepti praticavano il libero amore e il comunismo dei beni, che prese il potere nella città di Munster in Germania nel 1534.
Il Punk è stato dunque l’ultimo movimento del Novecento che abbia espresso un rifiuto totale della società, del comportamento, del modo di vestire che fino a quel momento erano stati considerati pilastri indiscussi della nostra visione del quotidiano. Dopo il Punk è cambiato tutto. Tornando a casa dopo un concerto dei Sex Pistols, una scarica di adrenalina allo stato puro, dopo aver pogato durante l’esecuzione al fulmicotone di «Anarchy in the UK», era semplicemente impossibile mettere sul piatto dello stereo «Knockin’ on Heaven’s Door» di Bob Dylan oppure gli Electric Light Orchestra. Ancora più dei dadaisti, dei surrealisti e dei situazionisti, i punk hanno lottato fino all’ultimo per essere inaccettabili, si sono impegnati con tutte le loro forze per far sì che le loro canzoni, le loro immagini oltraggiose, i loro slogan e il loro look non potessero finire in un museo. Eppure, incredibile a dirsi, anche le bestemmie, gli insulti, gli sputi e il vomito dei Sex Pistols hanno fatto questa brutta fine: diventare pezzi da museo, arrivando addirittura ad essere consacrati in occasione del quarantennale della nascita del Punk (novembre 1976) da quella stessa regina Elisabetta II che avevano oltraggiato nella celebre copertina di God Save the Queen, realizzata da Jamie Reid, di cui Marcus sottolinea giustamente le ascendenze situazioniste, l’affinità con i collage del Maggio ’68 e la parentela stretta con la Mona Lisa L. H. O. O. Q. (1919) di Marcel Duchamp.
Forse l’unico gesto di ribellione ancora possibile, in una società che è riuscita a digerire perfino l’estremo oltraggio del Punk, è quello annunciato dal figlio di Malcom McLaren e Vivienne Westwood, Joe Corré, fondatore della maison di moda Agent Provocateur, che nel 2016 ha dichiarato che avrebbe dato fuoco a tutti i cimeli del periodo punk posseduti dal padre, il geniale inventore dei Sex Pistols, per un valore totale di 5 milioni di sterline, in un immenso potlatch che sicuramente sarebbe piaciuto ai situazionisti di Guy Debord.
Ancora oggi, a 25 anni dalla sua pubblicazione in Italia, Lipstick Traces non ha perso nulla della sua carica dirompente, anche se molti dei suoi protagonisti sono ormai morti (come Malcom McLaren, nel 2010) e altri – come John Lydon – hanno dismesso i panni degli anarchici rivoluzionari e sono approdati su posizioni filoisraeliane e di aperto appoggio alla Brexit e alla politica di Trump, un individuo rozzo e volgare di cui certamente Lydon apprezza la maleducazione, degna di un vecchio punk che ha fatto i soldi. Dalla cresta punk del ribelle irlandese Johnny Rotten siamo passati ai capelli biondi ispidi e sparati in aria della britannica Theresa May e al simil-parrucchino arancione del tycoon americano…
«There’s NO FUTURE / in England’s (and America’s) dreaming» : avevano ragione John, Sid, e gli altri Pistols. Ma questa è un’altra storia, tutta ancora da scrivere.
Nota
Non è facile, e chi traduce lo sa bene, tradurre una recensione musicale e rendere in italiano quello stile così particolare di Marcus, che parte dal verso di una canzone per approdare a conclusioni di analisi culturale e di profonda riflessione filosofica, sulla scia dei Minima Moralia di Adorno. Tutto ciò premesso, in alcuni punti la traduzione di Mita Vitti appare veramente indifendibile. Quando poi si giunge a p. 126 e si legge il celebre verso dei Sex Pistols «Belsen was a gas», titolo di una delle più controverse canzoni del gruppo, tradotto «Belsen era gasante», qualsivoglia sentimento di umana solidarietà nei confronti della traduttrice viene meno…