Durante il suo recentissimo tour primaverile in Italia, a Dušan Veličković è toccato l’immane compito di approdare a Pordenone per commentare la prima mondiale del documentario The Trial of Ratko Mladić di Henry Singer e Rob Miller, dedicato al processo contro il boia di Srebrenica.
Non avrebbe potuto esserci contrappasso peggiore, né chance di anamnesi migliore per uno dei più coriacei e ironici oppositori del regime di Slobodan Milošević: costretto in primis all’esilio, all’inizio degli anni ’90; poi licenziato dalla direzione del settimanale di opposizione “NIN” nei giorni caldissimi delle oceaniche proteste contro il vožd di Belgrado, nell’inverno del 1997; e infine ripetutamente minacciato di morte tanto dagli zombies nazionalisti serbi, quanto dalle bombe della NATO del 1999.
Tanto è vero che, alla fine dell’incubo, Dušan confesserà nel volume Serbia Hardcore (Zandonai editore, 2008): “Ora Milošević è morto. E io, oggi, qui, chi sono, che cosa mi succede? […] Il dittatore mi ha preso dieci anni di vita così, tanto per il gusto di farlo? […] Ma ho una mia teoria: tutti coloro che sono sopravvissuti a Milošević sono ringiovaniti di dieci anni. Abbiamo vissuto un non tempo, che non viene conteggiato”
Forse proprio in ragione di questo non tempo, nel romanzo l’immagine santificata di Ratko Mladić affiora solo nel finale – come un’epifania cancerogena – dal cruscotto di un taxista di Belgrado, che sta portando il giovane Aleksa verso l’autobus diretto in Grecia, dove il ragazzo è certo di poter ritrovare suo padre.
Naturalmente il genitore non è solo il canonico intellettuale ostracizzato dal regime serbo e quindi costretto a nascondersi (da fedele alter ego dell’autore ne ripercorre pedissequamente l’esilio europeo) ma è anche l’ultimo esponente di una folle e grottesca genealogia che unisce la cultura mitteleuropea del XIX secolo con quella balcanica contemporanea.
La discendenza della famiglia Kobatz-Tomić, ben schematizzata dall’albero posto in apertura dell’opera, viene narrata attraverso un escamotage stilistico tanto originale quanto drammatico.
Mentre la prima parte dell’intreccio giunge fino alla fine degli anni ’80 all’insegna dello jüdischer witz caratteristico della dissacrazione ottocentesca, la seconda parte – psicologicamente radicata nel trauma delle guerre degli anni ’90 – assume un tono sempre più grave, melanconico nella texture delle paure inconsce, quasi omerico nella sua conclusione ellenica. Il ricongiungimento familiare sul litorale greco tra Aleksa e il padre Toma Kobac (la “tz” finale austroungarica ha infatti ceduto all’omofona “c” serba) sarà infatti solo il pretesto per rivelare al mondo l’imminenza di una nuova tragedia, quella dei profughi del sud del mondo che sbarcano sulle sponde meridionali dell’Europa, sotto gli occhi sbalorditi di turisti e reduci di altre persecuzioni.
Sospesa in un’atmosfera da film dei fratelli Coen, invece, la prima parte illustra al lettore le vicende degli avi, con una variegata composizione del registro ironico caratteristico della miglior satira novecentesca.
Si va da motti degni di un novello Lenny Bruce (“nel Sessantotto ho provato l’LSD, l’ecstasy non vale niente”) a sottili conflitti familiari giocati sulle corde yiddish (“Per primo morì il padre della madre di mio padre. Mia madre disinfettò subito la stanza. ‘Questa d’ora in poi sarà la nostra sala da pranzo, la vita va avanti’). Dalle influenze alienanti de Lo Straniero di Camus (“Mio padre si è suicidato. Scioccante, ma comprensibile. Testamento lunedì”), fino alla completa rimozione comica del sacro e dei rituali in mortem (“Le sue ultime parole furono: Je refuse de chier. Ma passarono totalmente inosservate perchè coperte dal rumore della televisione che annunciava che l’Armata Popolare Jugoslava aveva bombardato i camion sulla strada presso Bregana”).
È in particolare il tema della dissoluzione del mito marxista e freudiano il fulcro delle vicende della famiglia Kobatz-Tomić. Il patriarca Toma, ricco commerciante viennese di stoffe, prende contatto con tre esuli bolscevichi: “Lo attirava l’idea di un cambiamento radicale del mondo, in cui anche lui sarebbe stato liberato dal proprio ruolo di sfruttatore: aveva letto Proudhon”. Quindi li incontra in un locale, intrattenendosi con i primi due, mentre il terzo è seduto defilato e quasi indifferente: “Impaziente, fece cenno con la testa verso l’omuncolo con gli occhi a mandorla. Gusev e Burtsev risposero all’unisono: ‘Vladimir Ilić ha grandi piani!’”.
Sorte ben peggiore tocca al padre della psicanalisi, rappresentato dapprima come un morboso giovane collezionista di reperti antichi: “dopo alcune sedute da quel dottore circondato da vasi greci e rilievi egizi, aveva rinunciato ad ulteriori cure. ‘Mi massaggiava il collo e poneva domande insulse’”. Poi, nello svolgersi della trama, lo ritroviamo presentato come “il dottor Sigmund Freud, un noto medico di Vienna che curava il mal di testa”.
Per Veličković il doppio tramonto dell’utopia comunista e di quella psicanalitica è l’essenza stessa della fine della Jugoslavia: un regime comunista convertito al peggior sciovinismo, nel quale i leader delle minoranze serbe in terra nemica sono quasi sempre degli psichiatri, come Radovan Karadžić o Jovan Rašković. Ad un membro di questa nuova élites di medici ideologi dediti alla definizione dell’ethnos, l’autore fa dire: “Questo metodo è solo apparentemente brutale. È interessante vedere che i risultati migliori si hanno tra le persone non istruite piuttosto che tra gli intellettuali”.
Dal sisma satirico balcanico non si salvano nemmeno le pagine tragiche dell’occupazione nazista della Jugoslavia: “I tedeschi avevano obbligato il padre di mia madre a correre per ventidue chilometri, nel 1942. Aveva settantuno anni e non rimase indietro… ‘Solo un tedesco può inventarsi un cross country del genere’ aveva detto Preva. ‘Si chiamava rappresaglia’ spiegava mia madre”.
Ancor meno indulgente è la satira sulla dittatura di Tito: “Io lo stimavo molto. Pensavo che lui creasse le persone. Lo immaginavo con le mani sporche di sangue e un sorriso divino”. Una dittatura i cui oppositori, una volta radiati, vivevano grosse difficoltà matrimoniali: “Quando ti hanno cacciato dal Partito sei stato capace di parlare per sette ore e a casa non fai altro che leggere il giornale!”. Per fortuna però giunge il Sessantotto belgradese con il suo ampio spettro di rivendicazioni: “Qualcuno scrisse su uno striscione: minatori e studenti. Qualcun altro poi aggiunse in piccolo: froci”.
In conclusione vale la pena sottolineare una bizzarra scelta editoriale legata alla traduzione.
Il titolo originale del romanzo è Bela, ćao, esattamente come il titolo della più celebre canzone partigiana italiana, naturalmente traslitterata in dizione serbocroata. Una fortuita assonanza? Nient’affatto, la canzone è in realtà un refrain molto presente del racconto: viene scandita da molti dei personaggi principali in differenti contesti – da quelli ludici iniziali a quelli nostalgici e tzigani finali.
Al netto delle problematiche connesse all’uso e all’inflazione del nome del brano sulle copertine di moltissimi libri recenti, sarebbe valsa la pena optare per una soluzione che potesse almeno richiamare il legame esplicito (diciamo “tributo”?) del testo nei confronti della storia e della cultura italiana.